MARILETI e basta

MONDI  RIEMERSI

Prefazione

A distanza di circa due anni sono ancora qui a domandarmi perché: perché ricordo la storia nelle sue linee generali, ma non ne rammento i particolari? Perché ogni tanto vengo presa da una sorta di frenesia che mi induce a fissare i ricordi sulla carta? Quale istanza mi ha obbligata a mettermi in contatto con Giuliano in questo caldo mese di giugno per farmi ripetere i particolari della vicenda che lo interessò?

Domande senza risposta per il momento, ma spero la soluzione possa venire con la narrazione.

Pompei: prigioniera delle circostanze – mamma molto anziana e invalida – mi sembra un sogno potermi godere una giornata di libertà. Con un gruppo di amici abbiamo deciso di visitare gli scavi di Pompei e sono in fine lì, nel novembre del 2003, ad aspettare che gli altri arrivino. In nottata un acquazzone furioso mi ha fatto temere per l’esito della gita, ma ora c'è un pallido sole Come accade sempre un amico lo ha detto ad un altro e così via, per cui non ci conosciamo tutti ed ho timore che la mia timidezza possa rovinarmi la giornata. Poi, eccoli arrivare un po’ per volta da varie parti d’Italia e giunge anche Alfonso, la nostra guida. Pochi minuti e siamo alla biglietteria, si entra e via, il giro ha inizio. Mentre aspettiamo gli altri che si sono attardati il discorso del nostro piccolo gruppo cade per caso sulla II guerra mondiale e Giuliano, malgrado la sua riservatezza, ci invita ad ascoltare la sua vicenda.

 

  1. L’inizio

 

  • Tutto ebbe inizio nel 1944. Mio padre e mia madre erano entrambi

chimici, il babbo lavorava presso una grande industria farmaceutica

come ideatore di gabinetti chimici, invece la mamma era

casalinga. Gli Ebrei,a seguito delle leggi razziali emanate nel 1938,

erano sotto il tiro di quanti, fascisti convinti, non si erano ancora

persuasi dello sfacelo causato dalla dittatura mussoliniana.

La voce è ferma ed educata e non sembra mostrare emozioni,assomiglia quasi a quella di un cronista desideroso di descrivere i fatti come si sono verificati,  solo ogni tanto il narratore sosta come a cercare le parole adatte per raccontare ciò che emerge dalla sua memoria.
Seguiamo affascinati il racconto ed il mio pensiero va a questa strana coincidenza: in visita ad una città riemersa dopo centinaia di anni di silenzio dalle ceneri e dai lapilli che l’avevano cancellata,
ad ascoltare una storia riemersa allo stesso modo dalla memoria di un caro e gentile amico. Ci inoltriamo per una via con delle tombe stando ben attenti a dove mettiamo i piedi – nessuno di noi è più giovane, tranne Alfonso e Giuliano prosegue l’ esposizione:
- Il proprietario dell'industria chimica era un ebreo. Quindi lui e la

sua azienda erano soggetti ad una sorveglianza speciale da

parte delle S.S. In fabbrica - sulla scia delle idee di Ferruccio

Parri -  si tenne una riunione della resistenza,che si andava

 

consolidando sulle Alpi Marittime. Il fatto venne a
conoscenza della Gestapo. che fece irruzione nei locali dove

l’azienda farmaceutica svolgeva la sua attività e pose i dirigenti

dinanzi all'out out:

. Collaborare e svolgere il proprio lavoro in Germania,nelle

industrie tedesche;
. Finire internati in un campo in Germania.

La voce di Giuliano, dopo una breve pausa continua:
- Mio padre, pensando alla sua famiglia ed insieme alle istanze della

sua coscienza, rispose che avrebbe lavorato in un'azienda tedesca,

purché si fosse trattato di una fabbrica di medicinali poiché voleva

evitare di collaborare all'industria bellica.

  1. Prigionieri in viaggio

Mentre osserviamo le meravigliose cose che a Pompei testimoniano ancora i fasti della gloriosa Roma, avvolti da quell'aura di mistero che circonda tutto il sito archeologico, la voce di Giuliano si sovrappone all’ emozione che quell'antico selciato mi procura sempre.
- I miei genitori vennero quindi presi per essere spediti in Germania in

Un campo di lavoro, ma io ero a scuola e non ero destinato a

seguirli. Mio padre, disperato,perché sarei rimasto in balia di me

stesso, non avendo parenti che potessero occuparsi di me, si

ricordò di aver conosciuto un colonnello della Wermatch (l'esercito

regolare tedesco) e riuscì a farlo avvisare. L'ufficiale mi fece

prelevare dall’aula della IV elementare che allora

frequentavo, e condurre al treno in partenza. Non avevamo bagagli:

neppure un asciugamano.

Ero un bambino e la novità mi incuriosì e mi piacque. Non sapevo

cosa sarebbe successo in seguito.
Viaggiavamo, con alcuni colleghi di mio padre, in un vagone di terza

classe coi sedili in legno e senza riscaldamento. Ricordo il passaggio& della frontiera. Eravamo guardati a vista, nella neve alpina, ogni cento metri, un soldato tedesco se ne stava immobile nel suo cappottone scuro a sorvegliare il passo del Brennero. Fermi come statue somigliavano ai miei soldatini di piombo. Vedevo il luccichio degli elmetti, nella notte, al passare dei fari del treno. 

 

  1. Dachau

Giungemmo a Dachau il 18/4/44, come testimonia una foto che mi

fecero i tedeschi all'ingresso nel campo e che ancora conservo.

Come descrivere il primo campo di sterminio organizzato dai nazisti?

Ricordo la recinzione,  le baracche divise in due settori – noi

eravamo in quello di sinistra in una baracca vuota, destinata a

coloro che erano in transito. Un’intera baracca per tre persone!

La zona era paludosa con un clima molto umido e tanta nebbia. I

molti prigionieri appartenevano alle più svariate nazionalità:

tedesca, austriaca, polacca, russa, francese, italiana, cecoslovacca,

ungherese. Prima di indicarci la baracca di destinazione e di

fotografarci, i tedeschi ci fecero fare una doccia collettiva.

Rammento bene l’imbarazzo di trovarmi nudo in compagnia di

estranei, diversi per età e sesso.
Le baracche umide,i letti a castello in assi di legno, la fame ed il

freddo sono il ricordo più grande della permanenza a Dachau che

durò per circa una settimana.

La fame: non ne ho una cognizione esatta, essendo nata quasi alla fine della II guerra mondiale, e chiedo ragguagli, vergognandomi per la richiesta.

Giuliano, allora, interrompe il suo primitivo racconto e, da affabulatore nato, comincia a narrarci un episodio che la descrive.

  1. La fame

  • Olocausto è una brutta ed impropria parola. Vuol dire: sacrificio agli dei. E non c'è Dio che voglia sacrificio, a meno che non sia un dio imperfetto, dio dell'uomo: assurdo. Dio per nient'affatto dio, insomma. Eppure un pezzettino di questo olocausto ve lo vorrei raccontare, non come un omaggio a voi, scusate, ma con le lacrime di un bambino di settanta anni, che è rimasto inchiodato a quei giorni e a quei tempi e a tutti coloro che morirono senza ragione, uccisi da uomini senza ragione. Per loro, per quelli finiti nelle fosse, farò la fatica di ricordare, come fosse l'offerta di una rosa. So bene che non è servito, non serve e non servirà a niente. I rimorsi li provano gli uomini buoni e gli uomini buoni non ucciderebbero mai così. Ma anche fra gli altri, fra quelli che sanno uccidere, all’improvviso un po' di luce si può far strada e sembra che per miracolo il sole si sgombri dalle nubi e la speranza appaia. Non è probabile sia così. Può essere frutto del caso, di un umorismo crudele che scuote una crudeltà conclamata, di un'insieme di circostanze, ma accade. Così accadde quel giorno lontanissimo. La notte l'avevo trascorsa sui tavolacci dei letti a castello, in una baracca di legno, allineata fra le altre sulla spianata di un lager di cui vorrei dimenticare il nome. Avevo i calzoncini corti ed un cappottino con lo spacchetto dietro come unica coperta. Faceva freddo e non era il solito freddo. Era il freddo che ti fa mancare il fiato, che ti scurisce le gambe, che ti fa ghiacciare i denti e che ti anestetizza i piedi. Eppure la mattina sorse un pallidissimo sole ed illuminò, con filamenti leggeri, i sospiri del ghiaccio notturno. Avevo fame. Mi angoscio quando cerco di far capire cosa sia la fame e chi non ne ha mai avuta quanta ne avessi io in quel momento. Ma la mia era una fame da morte, una fame senza speranze: la fame di chi non mangia da tre giorni niente, neppure un odore. Mia madre e mio padre sembravano svenuti nel freddo.

  1. Vincere la paura

  • L’ambiente mi sembrava ostile come non mai, ma la fame era tanta, come il freddo e questo disagio estremo mi condusse all'azione.

  • Mi alzai, non indossai il cappottino e mi infilai con decisione sotto il filo spinato che delimitava lo spazio attorno alla baracca. Mi avviai piano, con passo affaticato, verso il centro dell'enorme spazio che si apriva davanti all'allinearsi delle costruzioni di legno affiancate, nel grigio del grigio dell'alba. Là in mezzo era, ma potrei dire si ergeva, si levava, si innalzava come il colosso di Rodi un nerissimo sottufficiale delle SS, col suo teschio sulla visiera ed i suoi lucidissimi stivali. Guardava avanti e non mi vide, piccolo com'ero. Eppure, piccolo o meno, mi avvicinai e lo afferrai per i pantaloni alla cavallerizza. Mi guardò come Polifemo ebbe a guardare Nessuno. Allora, per uno di quegli straordinari miracoli che la disperazione fa sbocciare dal freddo, feci un gesto antico. Mi misi la mano di taglio davanti allo stomaco e la agitai, sempre di taglio, avanti e indietro. Solo Dio sa cosa ci fosse dentro e dietro quell'uomo, quali avrebbero potuto essere le sue reazioni.
    Ma all'improvviso una risata cupa lo scosse da capo a piedi e, chinandosi, mi prese nell'incavo del braccio e mi portò verso una fumosa baracca che nascondeva una cucina. Mi fece dare una fetta di pane nero e margarina, mi ricondusse fuori e, nella foschia del mattino nascente, mi mise in terra e mi spinse, piano, verso la stamberga da cui ero venuto. Mentre correvo verso la mia baracca, costeggiando i reticolati, le voci, quelle che udrò finché ci sarò, mi seguivano e mi seguono. Erano quelle dei prigionieri affamati che dicevano: "Bambino, bambinooo, chi ti ha dato quel paneeee? bambinoooooooo". Chiuso in me, sordo, muto, impassibile, arrivai da mia madre e le misi in mano quel pezzo di pane. Era vostro quel pane amici miei scomparsi. Quel pane è il mio rimorso. Ma anche se mi vergogno sono qui a testimoniare che un assassino vestito di nero, regalando un po' di speranza a un bambino, ha dimostrato che Dio,
    qualche volta, sorride.

L’immagine del bimbo che porge il pezzo di pane alla madre sembra accendere un lampo nel mio cervello. Forse è lì il senso della mia frenesia, ma per quanto mi sforzi, non riesco a dare un significato alla passeggera idea.

Il contrasto tra le rovine avvolte dal sole e le immagini del campo di

sterminio nazista è notevole e, mentre continuo a seguire con una parte del
cervello la nostra guida agli scavi, Alfonso, con un'altra parte sono con il ragazzino che tanti anni fa fu testimone di avvenimenti passati tristemente alla storia. Ora non so per esperienza diretta, ma posso immaginare cosa sia la fame di cibo, invece non riesco ancora a dare un significato a questi avvenimenti e permane la fame di senso.

 

  1. Flittard

 

La commozione pervade l’intero gruppo e Cesare, forse per diradarla, interviene con fare brusco:

  • Giuliano, forse non come la tua. ma di fame ne abbiamo patita molta anche in città, noi bimbi di allora; continua a raccontarci del lager, invece, non sono stati in tanti a poterne riferire.

Giuliano, dopo una risposta scherzosa a Cesare prosegue:

- Non conoscendo il tedesco, mio padre in francese riuscì a farsi capire e

a far avvisare il comandante del campo da un ufficiale, cui spiegò che
noi dovevamo essere in un campo di lavoro e non lì. Infatti,

accompagnati da un passi con allegate le nostre foto, fummo
trasferiti a Flittard in un campo di concentramento, vicinissimo a

Leverkusen, sede della più prestigiosa azienda farmaceutica tedesca, la

Bayer. Già allora la Bayer era enorme: una città, tanto che per

spostarvisi all’interno c’era un trenino.

Essendo i miei genitori avviati al lavoro, restavo tutto il giorno solo al

campo in compagnia di gente di ogni risma, molto violenta o perché
incattivita dalla situazione o, forse, disabituata ad un vivere civile. Nel
frattempo la storia faceva il suo corso e gli alleati sbarcarono in

Normandia. La vita al campo trascorreva come sempre con la fame, il

freddo ed i pidocchi.

 

  1. La sporcizia

 

  • Oltre che affamati eravamo sudici:

per le funzioni corporali c’erano fosse biologiche scavate nel terreno,

con delle assi di traverso. Una volta riempite venivano coperte di

terra e se ne facevano altre. Erano attorniate da frasche e, bontà

loro, separate per sesso. Lungo un muro c'erano vasche in

cemento per lavarsi i piedi, erano larghe 50 cm., alte

altrettanto e lunghe sei o sette metri, con rubinetti in alto, a

circa un metro e trenta, che in inverno scorrevano sempre,

per evitare che si ghiacciassero: una gelida delizia.

Il caso vuole che la guida proprio in quel momento ci mostri e ci illustri gli antichi bagni pubblici pompeiani coi loro frigidarium e sembra uno scherzo del destino trovarsi a confrontare l’antica raffinatezza con i ricordi di Giuliano che si interrompe per seguire le spiegazioni di Alfonso che ci indica le nicchie per gli spogliatoi, la vasca per i bagni tiepidi e ci illustra l’efficace sistema di riscaldamento dell’acqua.

  1. Normalità

Il racconto mi fa provare tanta angoscia e mi chiedo quali possano essere stati i pensieri, le domande e le spiegazioni del piccolo Giuliano. In fine mi faccio forza e, ponendogli con gentilezza una mano sul braccio, domando:

  • Cosa pensavi? Come ti spiegavi la situazione? Ne hai

memoria?

La risposta giunge rapida e sbalorditiva:

  • Non pensavo nulla, tutto mi sembrava normale, non mi ponevo domande, accettavo la situazione come naturale; per il suo lavoro mio padre non si fermava mai molto in luogo ed ero abituato a cambiare residenza, abitudini e conoscenze.

  1. Bombardamenti

Gli amici sono interessati più ai fatti e pongono domande sul seguito della storia e Giuliano volentieri prosegue:

  • Poi arrivarono i bombardamenti americani nei pressi del Reno perché gli USA cercavano di proteggere le truppe di terra e Flittard fu fatta oggetto numerose volte di questi "doni del cielo", trovandosi nei pressi di Colonia che ne fu distrutta al 90%.

Non avevo paura delle bombe, bensì della situazione intorno a me.

Alcuni degli internati avevano negli occhi il nero buio del terrore, altri

la luce della speranza.

Nella mia ingenuità di bimbo non comprendevo ed ero sempre

spaventato da ciò che non capivo. Solo con gli anni ho realizzato

come il nero si associasse ad una possibile fine imminente, la luce ad

una aspettativa di salvezza.

La situazione nel campo divenne caotica perché all'ordine plumbeo

che aveva caratterizzato il luogo per anni,da prima che io vi giungessi,

si era sostituita la confusione: gente che correva di qua e di là e ordini

impartiti in tono brusco, rumore di motori messi in moto. Poi tutto

tacque ed, increduli, i primi internati si fecero sulla soglia delle

baracche per gridare agli altri la fantastica notizia: i carcerieri avevano

abbandonato il campo.

Intorno, i bombardamenti si facevano sempre più violenti, ed i cannoni

degli alleati, piazzati dall'altra parte del Reno, sparavano ad alzo zero,

distruggendo le poche case rimaste. Non c'era buco in cui rifugiarsi,

se non i crateri lasciati dalle bombe stesse.

Non ci muovemmo subito, passarono ore di dubbiose valutazioni, poi, di

notte, ci avviammo con esitazione per constatare che il campo

sembrava deserto e la recinzione era stata spazzata via dalle
esplosioni. Ci affacciammo all'ambiente esterno, cercando con

disperazione un posto che ci riparasse da quella valanga di proiettili

che inondava la radura.

 

 

 

Liberi

  • La vista era spettrale: intorno il deserto e nessuna traccia di vita, simile a ciò che avrei rivisto molto tempo più tardi, il 18 luglio 1969, quando il primo uomo mise piede sulla luna, solo buche e crateri. Ci
    inoltrammo fino a giungere in vista di un enorme edificio a più piani che contrastava con le poche costruzioni rimaste in piedi che erano per lo più villette. Come appresi successivamente, la struttura era stata edificata dai tedeschi e veniva utilizzata in un primo tempo come deposito per le armi. solo in seguito ai continui bombardamenti successivi, fu trasformata in rifugio per la popolazione.
    Entrammo esitanti ed impauriti, passando dal vano che fungeva da ingresso e presto fummo all'interno dove vi fu una conversazione tra mio padre ed un sottufficiale delle S.S., il comandante di quello che
    apprendemmo essere un bunker che ospitava tutti i cittadini locali, all'incirca trecento persone.

La voce dell'amico con l'avanzare del racconto ha espresso molte sfumature rispetto a quando ha iniziato e le sue parole sono riuscite a trasferirci, oltre che immagini, anche emozioni, per cui non è difficile avvertire la stessa disperazione di quei poveri sventurati nel trovarsi di fronte all'ennesima divisa tedesca.
il racconto di Giuliano prosegue con la sintesi della conversazione tra il padre e l'SS che aveva cominciato col negare bruscamente il permesso di entrare. Lo spazio non era sufficiente per tutti e per di più imperversava un epidemia fra i bambini. Fu allora che il padre, con un'altra delle sue trovate geniali, si qualificò come medico e venne fatto passare.

Ancora un lampo nel cervello e, mentre scrivo mi soffermo a pensare a cosa sia questa sensazione di incompletezza, di mancanza, che a tratti m’ispira il racconto.

  1. Nel bunker

La narrazione prosegue:

  • Eravamo in diversi ed a tentoni, ci inoltrammo. Buio di stanzoni colmi di spettri, illuminati solo a tratti dalle luci dei generatori che funzionavano a singhiozzo per cronica mancanza di carburante, ormai quasi finito. Si intravedevano solo sagome indistinte. Ma a me parve di essere quasi in una sala da ballo al confronto con l'esterno dove il cielo era nero per i bombardieri angloamericani che vomitavano il loro carico mortale sulle nostre teste.

La storia interessa noi tutti, ma intriga me in modo particolare, tanto che, in barba alla discrezione, con incitazioni e domande sollecito l’amico appena lui sospende la narrazione. Mi sento a tratti, come se gli usassi violenza, come mi sento una ladra ora, nel narrarvi la sua storia.

  • Giuliano continua:
    La figlia del comandante era una bella bimba con occhi e riccioli scuri che avrà avuto circa tre anni e mostrava, come gli altri malati, i sintomi della difterite. Sua madre, una graziosa giovane bruna, le era accanto e tratteneva il respiro ogni volta che la piccina tossiva. Il caso, assurdo e incredibile, volle che mio padre al momento in cui venne preso dai tedeschi in Italia, avesse messo in tasca, conservandolo gelosamente, un flacone di vetro scuro e spesso con un vaccino sperimentale per la difterite. Il caso o la fortuna, volle anche che il flacone avesse resistito agli scossoni ed alle traversie di tanti mesi di internamento. Il farmaco era nuovo per la ditta che lo aveva prodotto e sulla sua efficacia non c'erano prove, ma vista la grave situazione, tutti noi bambini fummo vaccinati. Ricordo ancora mio padre estrarre dal tappo del flacone il pennello, bagnarlo nel liquido e pennellare la gola a tutti i fanciulli.  La piccola morì, ma l'altra figlia del comandante e tutti gli altri bambini si salvarono.

Una deliziosa Venere in conchiglia si offre al mio sguardo come fosse stata appena dipinta e penso a quella modella morta da due secoli eppure capace di offrirsi ancora a noi con tutta la sua avvenenza in virtù del pittore che la dipinse, come quella bimba bruna e riccioluta con altrettanta grazia si offre a noi emergendo dal passato di chi ne ha conservato memoria.
        - Anche di quel luogo il ricordo principale è la fame. Ma di tanto

in tanto mentre passavo da una stanza all'altra, qualcuno mi

afferrava per un braccio e mi ci infilava sotto un pezzo di pane. Dire

pane è un po' troppo per quell'alimento che conteneva più segatura

che grano ed era scuro e acido, ma devo a quei doni la mia presenza

qui oggi. Di quel bunker mi porto dietro anche un altro ricordo
gradevole: una parvenza di intimità ottenuta con delle
coperte donateci da altri rifugiati. Negli stanzoni, infatti, c'erano delle

panche di legno disposte in quadrato ed ogni quadrato era destinato

ad un nucleo familiare, ciascuno dei quali aveva cercato un riparo
dagli sguardi altrui stendendo coperte e lenzuola intorno alle panche.

Credo risalga a quel periodo la mia attuale incapacità di dormire con

estranei alla mia famiglia.

La voce di Giuliano interrompe il suo racconto perché Liliana ha esclamato:
-        Che esperienza avventurosa!
Giuliano accascia le spalle prima di rispondere:
- Ne avrei fatto volentieri a meno.

Ormai anche Alfonso ha smesso di descriverci le meraviglie di Pompei, intendo com'è ad ascoltare la storia di Giuliano e lo incita a proseguire.

13. la morte

  • Del periodo del bunker conservo ancora un altro ricordo,
    ma questo angoscioso in modo terribile. C'era un ragazzino
    tedesco che avrà avuto quattordici anni circa e la sua panca era di fronte alla mia. L'avevo visto gingillarsi da poco con una
    gavetta ed una forchetta, battendo la seconda sulla prima
    a ritmo di musica. L'aria nel bunker era scarsa e viziata ed il ragazzo che
    aveva necessità  di prenderne una boccata fresca, depose gli
    improvvisati strumenti musicali e si avviò al portone.

Giuliano s'interrompe per un attimo e poi sollecitato da noi amici prosegue spiegandoci che gli alleati continuavano a sparare cannonate nella direzione del bunker, dalla loro postazione al di là del Reno e quindi gli  occupanti del rifugio avevano imparato che tra una raffica di fuoco e l'altra c'era giusto il tempo per una boccata d'aria e per un celere ritorno al sicuro. Il ragazzetto doveva
aver sbagliato i suoi calcoli e non fece in tempo a rientrare prima della successiva raffica.
-    Lo ricordo bene quel giovane corpo steso immobile. Morti ne avevo visti

già tanti, sotto i bombardamenti e per le vie, uccisi dalle bombe, ma quel

ragazzino, vivo un attimo prima davanti a me, mi mise per la prima volta

di fronte alla incredibile fragilità dell'esistenza.
La voce rivela leggere incrinature, ma subito riprende la narrazione:
- Di quella tragedia ho anche il ricordo della reazione della madre del

ragazzo, una donna bionda, alta ed un po' corpulenta. Una reazione

strana, per me italiano ed abituato allo spettacolo dei parenti del defunto

che piangono e si disperano sulle spoglie del caro estinto. La donna non

mostrò alcuna reazione, ma in silenzio, come un automa, venne alla sua

panca, tolse gli abiti che aveva indosso e si vestì di nero.

Ecco è tornato il lampo, ma ancora non intravedo il perché.

Alfonso, la nostra guida, ci invita ad osservare delle teche di vetro nelle quali sono conservati i calchi in gesso dei pompeiani in fuga. L’attimo della morte li ha colti di sorpresa ed i poveri resti si mostrano in un atteggiamento di difesa. Adulti e bimbi attraverso i corpi rannicchiati cercano ancora uno scampo che non ci fu.

Clic di macchine fotografiche e poi tutti in posa per le consuete foto-ricordo.

E’ difficile atteggiare il volto al sorriso considerando quelle infanzie negate, ma le circostanze lo impongono e la foto scattata.

Perché amiamo le foto? I ricordi non sono sufficienti? Forse temiamo di dimenticare e con l’oblio non ci saremmo più neanche noi, perché noi siamo i nostri ricordi. Giuliano ci ha parlato di una foto scattatagli all’ingresso a Dachau che conserva ancora ed è strano che la consapevolezza successiva all’infanzia gli abbia fatto conservare il tangibile ricordo di quel periodo della sua vita. Considero poi che l’uomo colto e raffinato evolutosi da quel bimbo abbia considerato la foto un documento storico..

 

14. L’arrivo degli alleati

 

  • Che cosa ricordo dell’arrivo degli alleati? La calma del tacere delle armi al di là del Reno, l’attesa trepidante di tutti, anche se con animo diverso:i tedeschi, atterriti dal pensiero che le truppe in arrivo potessero far loro ciò che Goebbels nella sua propaganda aveva detto gli avversari facessero ai prigionieri tedeschi – sevizie, torture, stupri; tutti noi altri, speranzosi di poter tornare a casa.

Di quei giorni ricordo bene lo schierarsi dinanzi al bunker dei

Tedeschi tutti con in mano un’asticella sulla quale sventolava un

fazzoletto bianco in segno di resa. Ero dispiaciuto ed innervosito per

non avere anch'io il fazzoletto da sventolare.

Per primi arrivarono gli inglesi, e dopo pochi giorni cedettero il posto

agli americani. Ero piccolo e dell'America sapevo solo che esisteva e

degli americani non sapevo proprio nulla. La cosa che ricordo con

chiarezza fu il cambio della guardia, che implicava la sostituzione dei

comandi. Gli inglesi, soldati da sempre,accolsero i loro alleati in riga,

impettiti e con le divise impeccabili. Gli altri, non nuovi alla guerra, ma

senza dubbio alieni dal formalismo anglosassone, avevano un

atteggiamento diverso. Parecchi di loro, sia pure nei ranghi,

masticavano ripetutamente chewingum, la "gomma americana" che

imparai a conoscere in quella circostanza.

L’altro episodio che rammento con chiarezza si svolse sul retro
dell’edificio dov'era la fontanella cui attingere acqua.

Una vecchia signora era andata col suo secchio in mano alla

fontanella e lo aveva riempito. Il rumore di una jeep che arrivava la

fece voltare di scatto e lasciò cadere il pesante secchio con il suo

prezioso contenuto.

Dalla jeep scese un ufficiale americano che con sollecitudine si chinò a

raccogliere il secchio, lo riempì e lo rimise nelle mani della vecchia

signora.

Quanta elegante signorilità in quel semplice gesto!

 

15. usciti dal bunker

 

  • Che felicità potersi muovere liberamente ed uscire dall'atmosfera

chiusa del bunker. Riassaporo ancora con voluttà l’aria fresca che si

 

posava sul mio viso e sulle mie membra. In una di quelle passeggiate

in compagnia dei miei genitori conversavamo con animo tranquillo

passando dinanzi ad una villetta. Sull'uscio tre signore sulla

cinquantina ci guardarono con curiosità, al sentire la nostra

conversazione, poi una di loro si fece avanti e chiese:

  • Siete italiani, VERO?
    Questa frase detta in un italiano perfetto da una tedesca
    ci meravigliò non poco come quella che seguì:

  • venite in casa, che vi diamo qualcosa da mangiare. 

 

  1. Le patate

All'interno dell’abitazione alle nostre domande circa la loro conoscenza
dell'italiano, ci svelarono l'arcano: figlie di un cameriere che aveva

lavorato diversi anni in un ristorante sul lago di Como, avevano seguito il

padre in Italia. Mentre conversavamo, una delle tre prese delle patate, le
fece lessare, le tagliò a fette sottili e poi le fece rosolare nella margarina.

Oggi mia moglie - alla quale raccontai l'episodio -  rosola le patate lesse, a

fette, nel burro, ma non saranno mai saporite come quelle. Le nostre ospiti

ci raccontarono di essere appena tornate da Essen, dove avevano dei

parenti che le avevano ospitate. Erano rimaste chiuse in un rifugio, in

quella città per quasi due mesi. Ci dissero anche che conoscevano il

comandante del lager e che se avessero saputo, prima di scappare, che

c'erano degli italiani nelle baracche, avrebbero cercato di mandarci

qualcosa da mangiare, anche se di cibo non ne avevano neppure per loro.

 

 

17. Nel campo di smistamento americano

Gli alleati inserirono me e la mia famiglia in una lista per il rimpatrio in Italia e nei primi tempi fummo ospiti delle signorine tedesche che conoscevano l’italiano.

  • Quelle delle patate? Chiedo.

  • Proprio loro ci ospitarono finché non fummo avviati ad un campo di raccolta, prima ad Essen, poi a Dusseldorf, luoghi nei quali incontrammo tutti i militari italiani che non avevano voluto aderire alla Repubblica di Salò dopo il 25 aprile ’45. Nell'attesa del rimpatrio trascorse circa un anno e di quel periodo mi è rimasto innanzitutto il ricordo dei soldati americani che ci portavano il cibo ricordo poi l’acqua che mi scorreva sul corpo scendendo dalle docce da campo montate dal genio militare americano. Le docce erano calde e fredde ed erano all'interno di recinti di legno e permisero, con l’aiuto delle polveri e dei saponi donatici, di liberarci dalla sporcizia accumulatasi e dai pidocchi.

I miei genitori ebbero degli abiti militari nuovi made in USA ed io un pantaloncino che un soldato napoletano, che da civile faceva il sarto, ricavò da una coperta da casermaggio.

La pulizia, la testa rasata a zero ed il cibo ci riportarono tutti a nuova vita, non la vita di prima che tutto iniziasse, ma una vita da esseri umani, riconosciuti e considerati tali.

18. Il ritorno

Il rientro in Italia avvenne in treno su un carro bestiame con i portelloni aperti per fare entrare l’aria, poiché si era d’estate.. Avevamo cibo a volontà per quel viaggio che durò parecchio, circa una settimana, poiché in Europa molti tratti ferroviari erano stati distrutti.

Questo viaggio di ritorno lo trascorsi quasi tutto in braccio ad un giovane ufficiale di marina che m’intratteneva raccontandomi favole e che, ai tentativi dei miei genitori di farmi scendere dalle sue gambe, oppose sempre un reciso rifiuto. Oggi penso che forse gli ricordavo un figlio al quale avrebbe voluto narrare quelle favole.

19. Cosa manca?

L’immagine del bimbo intendo ad ascoltare favole mi fa infine comprendere cosa sembra mancare nella vicenda di Giuliano:

non v’è una sola parola riferita ad atti di tenerezza dei suoi genitori, non un sol gesto di consolazione, di affetto.

Alle mie domande Giuliano risponde in modo pacato:

  • Vedi, Mariella, loro erano tutti presi dalla situazione contingente, Venivano, venivamo, trascinati dall'onda delle cose. Non ci sono reazioni loro che io ricordi o non ci feci caso. Ricordo le azioni, ma quello che provavano non mi interessava. Il bambino ero io, per forza di cose quasi sempre solo. Osservavo il nuovo, il diverso, ma ero troppo occupato ad interessarmi di quel che mi accadeva intorno per pensare ai miei genitori. Per me erano immortali, capaci di risolvere i problemi, ma li tenevo di riserva. Mi arrangiavo da solo a vivere; non era tempo di carezze. No, non ti saprei dire dei miei di più di quel che ti ho detto. Erano vagamente presenti, come ultima res. Accanto a loro non avevo paure, ma anche quando non c'erano me la cavavo. Osservavo e vivevo; grandi paure non ne ebbi, neppure vedendo la morte da vicino. Mi credevo, penso, anch'io immortale.

La spiegazione è data con tono sicuro, anche se ho notato una leggera esitazione nel tempo di risposta. Considerando la mentalità di un bimbo, essa può anche essere convincente, ma la mia mente analitica non può che interrogarsi sul perché in tutta la vicenda la figura del padre giganteggi con le sue idee e le sue decisioni, mentre quella della madre pare non esistere, neanche come comprimaria. So che l’iniziale frenesia era dovuta appunto dall'assenza di quella figura che in un bimbo è sempre il principale punto di riferimento e non posso fare a meno di pensare che una qualche sorta di tragedia debba essere avvenuta successivamente al rientro della famiglia in Italia.

Terminata la narrazione di Giuliano, termina anche la visita agli scavi di Pompei e faccio il mio bilancio della giornata: l’acquazzone notturno ha lasciato il posto ad una splendida giornata autunnale,gli scavi sono sempre uno spettacolo grandioso, ho fatto nuove conoscenze e ho incontrato un bimbo di tanti anni fa che mi fa avvertire prepotente il desiderio di carezzare l’amico di oggi, nonostante il suo metro e ottantasei centimetri di altezza.

  1. Dopo la cronaca

Sono trascorsi alcuni mesi dai miei contatti con Giuliano perché mi narrasse nei particolari la sua storia; tra noi è nata una particolare confidenza determinata dallo scavare nella sua memoria ed in fine vorrei che riuscisse a liberarsi dal suo tormento e che a mi confessasse:

  • La rivedo ancora com'era prima della guerra: snella, agile, i bei capelli sempre raccolti in uno chignon basso, sempre ordinata e vestita di chiaro ricordo il suo ridere spensierato, i giochi che inventava per me ………al rientro in Italia: incedeva in modo incerto, sempre vestita di scuro (forse portava il lutto per la sua femminilità morta nei lager), svanita ogni spensieratezza, trascorreva ore ed ore seduta in silenzio con lo sguardo basso. Mio padre tentò con ogni mezzo di trarla fuori da quello stato, ma a nulla valsero i cento medici consultati, i mille consigli di parenti ed amici, lei viveva chiusa in un mondo impenetrabile, niente risate, niente incombenze quotidiane, le era difficile persino tenere la sua persona in ordine. Mia madre è morta in Germania, l’altra non era che la sua ombra e morì molto più tardi in Italia.

Faccio leggere il mio scritto a Giuliano ed in silenzio vedo che la lettura è attenta e di tanto in tanto atteggia il viso all'approvazione. Giunto alla pagina finale già mi aspetto i suoi complimenti quando lo vedo sbottare in una sonora risata ed esclama in tono divertito:

  • Che fantasia Mariella, avresti dovuto conoscerla mia madre, è morta a novant'anni mangiando, lei era una vera forza della natura!

 

 

FINE