Sarà perché è Natale, sarà perché io sono una sentimentale, sarà per tante altre cose che non so esprimere, ma io ho nostalgia del CREST . La vostra comunità di xxxxxx per me è oramai un luogo
dell’anima , perché lì è passata mia figlia ed anche la mia relazione con lei, si è trovata nel frattempo a dover fare i conti con tante altre cose. Prima di tutto lì ho capito che altre persone
oltre a noi genitori si sarebbero presi cura di lei , sollevandoci da un gravoso fardello, sebbene a momenti alterni. Mi spiace molto come sia finita e che mia figlia (ma forse anch’io) non abbia
avuto la pazienza di rivedere i vantaggi del possibile rientro che il dott xxxx aveva in qualche modo fatto intendere. Ora quel fardello , per quanto mia figlia sia seguita e frequenti un centro
diurno dove lavora come piastrellista, fresatrice e quant’altro, è tutte le sere sulle nostre spalle e continua ad aumentare di peso. Non so quando e come potremo equilibrare questa situazione che
col tempo si sta facendo sempre più complessa. mia figlia compirà 26 anni ed oramai si sente esclusa da eventuali percorsi di studio ,di lavoro ed affettivi.
In ogni caso io vi ricordo con nostalgia , mi ripeto , la vostra casa, il vostro parco che ha accolto mia figlia nei momenti di serenità o di dolore, i compagni di terapia fra cui Serena , ……ed
altri. Ora lei , xxxxxxxxx, partirà per la sua casa al sole della Campania. Conosco quei luoghi, le sabbie dorate il mare incredibilmente limpido (nel 1976) ; lì ho imparato a nuotare e ad amare il
mare e la bellezza sfolgorante della natura di quei luoghi. Rivolga ad essi , uno sguardo dedicato a me.
Rivolgo a tutti componenti dello staff il mio ringraziamento personale per aver scoperto un luogo dove regna la tutela della dignità umana , della cura del più debole , dell’onestà e ………
Auguri a tutti Natale 2003
#70
espero(mercoledì, 06 settembre 2017 09:54)
Ciò che segue è una nota scritta e letta da me di fronte a 200 persone , l'ultimo giorno di servizio come prof associato in facolta di medicina a pavia , prima di andare in pensione. E' una nota di
commiato infarcita di nostalgia per non aver fatto di più.
Cari colleghi, non è un saluto accademico, né un curriculum vitae, perché non ho vissuto da accademica all’interno della nostra università. Forse ho sbagliato, forse ho sottostimato il ruolo che ho
occupato, ma la mia natura mi porta a cercare rapporti di fiducia, di amicizia che superano la relazione accademica , senza togliere a quest’ultima nulla del suo valore di solidarietà, di competenza
e di condivisione del sapere.
Mi ritiro volontariamente dal lavoro ( vado in pensione) perché ho consumato le energie e non mi sento più in grado di proporre e di programmare nulla che sia alla portata della professionalità
richiesta ad un professore.
Da quando ho 23 anni , ho lavorato all’interno dell’area di insegnamento della Medicina del Lavoro. Ho iniziato con grande passione , perché molto c’era da fare e molto mi colpivano le situazioni di
rischio gravoso in cui si trovavano i lavoratori , addetti a lavori di fabbrica , pesanti e pericolosi . E così era davvero.
Ora non è più così gravoso, non si muore di lavoro , salvo alcuni casi che la cronaca ci porta in primo piano; una legge , che è arrivata troppo tardi quando ormai molti danni si erano compiuti,( ma
nel nostro paese si legifera quando ormai il danno è fatto), protegge adeguatamente la salute di tutti i lavoratori.
Ho sempre detto agli studenti che qualunque specialità avessero fatto, dovevano sapere prima di tutto che la persona che gli portava i suoi sintomi di malessere, lievi o gravi che fossero, era prima
di tutto un lavoratore , per 8 ore al giorno, per 5 giorni la settimana , per una intera vita lavorativa.
E’ superfluo dire che mi dispiace lasciare una università e una facoltà così prestigiose , ma il prestigio lo fanno gli uomini che ci lavorano, ed io non ritengo di riuscire a sostenerlo per altro
tempo ancora. Ho già affermato che ho lavorato con passione , ma problemi interni alla mia famiglia di provenienza e a quella che mi sono costruita a Pavia mi hanno impegnato moltissimo ed esaurita
nelle risorse interiori ed intellettive , per lo meno al di sotto del livello cui penso debbano manifestarsi tale risorse affinchè possano essere trasmesse prima agli studenti e quindi alla società
di cui diverranno artefici futuri.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno stimata aiutandomi e forse, ma spero di no, anche sopportando il mio carattere e il mio modo di esprimermi e di agire facilmente fraintesi.Auguro una buona
continuazione a tutti e credo che non dimenticherò mai nessuno,spero cioè che la memoria si fermi al ricordo e non prosegua verso la nostalgia e l’oblio,salute permettendo.
Io continuerò a guardare il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, quali 2 punti di riferimento che non mi hanno mai abbandonato.
Elisabetta Crovato 31 gennaio 2007
#69
marileti(mercoledì, 31 maggio 2017 21:45)
Ma no, Sarina, sono sempre stata Mariella!
Mara è il nome che mi identifica in alcuni racconti
#68
Sari(mercoledì, 31 maggio 2017 09:52)
Marileti, forse ti chiamavano Mara un tempo? E a te piaceva più del tuo nome?
#67
marileti(martedì, 30 maggio 2017 12:56)
SCARAMANZIA
I raggi del sole che filtrano tra le persiane mi fanno grande piacere: si preannunzia una bella giornata ed il mio vestito andrà benissimo.
Sono un'adolescente insicura e non avrei saputo cosa altro indossare se il tempo fosse stato cattivo.
Mi giro dall'altra parte per cercare di dormire ancora un poco. Ripenso alle numerose visite dal sarto. Per la prima volta mamma aveva optato per Franco Tornabuoni:«Me lo ha raccomandato la signora
Lùcia e sai lei come è raffinata!»
Conoscevo solo donne sarte, ma l'uomo mi aveva subito messa a mio agio:«Ora le faccio vedere qualche modello adatto a lei, signorina.»
Meno male, avevo temuto che mi facesse vedere i figurini già mostrati a mamma!
Era tornato con un fascio di modelli e ne aveva scartati alcuni, poi mi aveva mostrato i prescelti. Con gli occhi sgranati avevo ammirato delicate siluette con gonne pieghettate, a ruota, dritte. Gli
scolli a barchetta, a pizzo, rotondi. Le maniche a giro, a tre quarti, lunghe.
«Mi piacciono tutti, mi consigli lei, per favore.»
«Per lei vedrei adatto questo, ma in chiffon.» Si allontana e torna con una pezza di chiffon a delicati ramage celesti. «Con i suoi colori starà benissimo. Il modello, inoltre la farà sembrare più
magra.»
Mamma irrompe nella stanza: «Alzati, pigrona. Tra poco don Carlo l'autista ci farà citofonare e dovremo scendere!»
Corro a fare colazione e in fretta mi vado a lavare. Lo specchio del bagno mi mostra che il lavoro del parrucchiere è uscito indenne dalla nottata. Gli mando un bacio. Torno in camera e indosso il
vestito. Il trillo del citofono mi fa calzare in modo veloce le scarpe. Afferro la borsetta e sono pronta.
Mentre ci dirigiamo verso Castellammare di Stabia, papà ci parla della cerimonia alla quale stiamo per assistere:«Il varo di una nave è un momento importante perché l'armatore e quanti hanno lavorato
alla realizzazione dello scafo, vedranno se la loro opera è stata fatta a regola d'arte.»
Mio fratello Federico: «Sì, se la nave galleggia, vero? Ma perché c'è una madrina? Mica è una cresima.»
«Il varo viene anche detto battesimo perché alla nave viene imposto il nome come ad un neonato. Invece dell'acqua benedetta si usa una bottiglia di champagne.»
All'arrivo al cantiere vedo tante persone che non conosco: gli uomini sono tutti in giacca e cravatta come papà, le signore in abiti eleganti e con il cappello come mamma. Tutti quei cappelli sono un
campionario di buon gusto o stravaganza. Sull'impalcatura torreggia la nave ed ai suoi piedi, in tuta, le maestranze.
Si aspetta un poco l'arrivo del cardinale che benedirà la nave in ricordo dell'epoca in cui la tecnologia non era molto sviluppata e andare per mare non era molto sicuro.
Un applauso saluta la madrina (la moglie dell'armatore) e la cerimonia ha inizio: benedizione del prelato, lancio della bottiglia e la nave scende con lentezza mentre tutti trattengono il fiato,
arriva in mare. Grida di gioia ne salutano il galleggiamento.
Ritorniamo in macchina per dirigerci verso un albergo sul lungomare nel quale verrà offerto un buffet.
«Federico,Mara, vedrete come tutti si lanceranno sul buffet, voi state accanto a noi. Prenderete qualcosa in un secondo tempo, dopo che la ressa si sarà diradata.»
Ammiro il grande salone con la lunga vetrata prospiciente il mare. Camerieri in giacca bianca ci offrono degli aperitivi che, logicamente, non accetto.
Papà si fa incontro ad un anziano signore: «Senatore, le voglio presentare mia figlia Mara.»
Rossa per l'imbarazzo stringo la mano dell'uomo:«Piacere.»
«Che bella signorina, Antonio. Mi dica, signorina Mara, quanti anni ha?»
Con un filo di voce:«Diciassette.»
Mi guarda con espressione inorridita. Le sue mani ripiegano il medio e l'anulare e ne uniscono le punte.
«Non si dice così, signorina. NO. Si dice sedici bis!»
FINE
#66
marileti(sabato, 27 maggio 2017 19:20)
Caro Antfrain leggo solo ora il tuo ricordo su tuo nipote e sull'orto. Invidio molto la possibilità che ti ha dato il destino di passare ad altri il testimone e spiega ad Antonio piccolo come si
ottengono splendidi risultati parlando alle piante in modo che noi trasferiamo a loro anidride carbonica ricevendone ossigeno
#65
Sari(domenica, 21 maggio 2017 17:00)
15 Febbraio del 1961. Quel giorno ci fu un'eclissi totale di sole visibile in tutta Italia, la scuola concesse per l'occasione la mattinata libera e le insegnanti non persero l'occasione per
impartirci una straordinaria lezione di geografia e ci diedero appuntamento su una collinetta in periferia dove i palazzi non avrebbero disturbato l'evento.
Le amiche ed io andammo senza capire pienamente in cosa consistesse per davvero quel fenomeno però il giorno precedente avevamo affumicato alcuni vetrini che avrebbero fatto da filtro fra i nostri
occhi e il sole che quel giorno ci avrebbe stupite con le stramberie.
Ci presentammo tutte all'appuntamento e attraverso il vetro affumicato osservammo il sole che, fettina dopo fettina, scompariva lasciandoci entusiaste e preoccupate.
Le tante persone che come noi ammiravano lo spettacolo celeste, commentavano col naso all' insù la luce del sole che sbiadiva e pareva portarsi via anche le voci che s'erano fatte via via più flebili
fino a zittire.
A sole era scomparso, l'aria s'era fatta fredda e le amiche ed io eravamo un poco spaventate temendo che non tornasse e che quell'innaturale buio sarebbe restato per sempre. Anche i cani erano
preoccupati, tanto che cominciarono ad abbaiare e lo erano anche i galletti che si misero innaturalmente a cantare. Tutto quel fare insolito accrebbe il timore per qualcosa di tremendo che sarebbe
certamente accaduto ma poi il sole cominciò il suo percorso inverso e, quando riapparve, tutti noi tirammo un liberatorio sospiro di sollievo... mancò poco che gli si facesse un applauso.
A quel tempo (e sembra preistoria) nessuno di noi aveva la macchina fotografica e ci dovemmo accontentare, a ricordo, delle foto scattate dalle insegnanti che però rimasero, con nostro dispiacere,
alla scuola.
Dimenticai quel fatto e tutte le emozioni che aveva provocate fino al giorno in cui mio figlio, ancora bambino ma già appassionato di astronomia, ne riparlò disegnandone tutte le fasi. Assieme a lui,
e per la prima volta, assaporai tutto quel che avevo visto e provato in diretta, tanti anni prima.
#64
Sari(martedì, 16 maggio 2017)
Quanto amore costruttivo in questo nonno che dà e riceve con uguale e amorevole intensità.
E' bello leggere queste storie, riconciliano col mondo.
#63
Antrefrain(martedì, 16 maggio 2017 21:03)
Era felice di occuparsi della raccolta. Recando la cesta in cui l’aveva riposta si precipitava, fiero, dalla nonna per mostrarle i risultati del suo lavoro. L’entusiasmo ingigantiva e lo possedeva.
Imparò, guardando me che me ne occupavo, a sradicare le ortiche facendo attenzione a non toccare la parte urticante. Volle sapere l’uso che ne avremmo fatto e le modalità di impiego del liquido di
risulta dopo bollitura. A pranzo riferivamo alla nonna i continui progressi di Antonio. Era lui stesso che la intratteneva su quanto quel giorno ci aveva interessati e tenuti occupati. Frattanto gli
anni passavano e Antonio cresceva sano e robusto. Fra il ragazzo che frequentava già le ultime classi delle elementari ed il nonno si instaurò un clima di scambio di notizie e impressioni. Antonio
raccontava del suo buon profitto a scuola e dei rapporti con la signora Maestra e gli altri ragazzi. Io, sempre attento a seguirne la crescita e la formazione, non perdevo occasione di portargli
qualche buono esempio e di inserire nei nostri frequenti dialoghi, a scopo didattico, notizie e racconti. Antonio andava anche a lezione di inglese da sua zia, la sorella del padre. In quei giorni
andavo a prenderlo a scuola e veniva a pranzo da me. Dopo pranzo, a piedi, lo accompagnavo da mia figlia. A pranzo ci divertivamo da matti. Prendevamo in giro la nonna facendole ogni tipo di scherzo.
Dicevamo che quanto aveva preparato quel giorno era buono ma non quanto quello che la madre gli preparava . In tali occasioni la nonna tirava su col naso parecchie volte. In altre occasioni
trasferivo, di nascosto, dal mio al suo piatto parte del cibo. Antonio, che frattanto aveva già divorato la sua parte, si adoperava perché la nonna notasse il cibo nel piatto e le diceva che non gli
era piaciuto. Ma quando la nonna che non si era accorta della manovra, o facendo finta di non esserne accorta, se ne rammaricava, le buttava le braccia al collo e la copriva di baci. Erano momenti di
gioia e di vera, semplice felicità. Sono passati gli anni. Antonio, come ho già detto, ne ha molti di più. I nostri incontri si sono diradati. Altre attività, come è giusto che sia, lo impegnano.
Viene occasionalmente, quando può, ad aiutarmi nel lavoro nell’orto. Il tempo che può dedicarvi si assottiglia sempre di più Va ancora a lezione di inglese dalla zia. Lo accompagna ora la madre, in
macchina. Cambio di mezzo di locomozione. A me resta la grande gioia di averlo aiutato a costruire la “sporta” che dovrà aiutarlo, perché possa riporveli, sia i successi che le inevitabili delusioni
che la vita propone.
#62
Antrefrain(martedì, 16 maggio 2017 21:01)
Il mio primo nipote ha quasi dodici anni. Si chiama Antonio. Frequenta la 2^ media. Quando venne ad annunciarmene la nascita mio figlio, abbracciandomi, mi disse:” E’nato Antonio.T’aggie mise ‘a
supponta”(ti ho procurato il sostegno). Per esorcizzare la commozione gli sussurrai:” Te sì vulute assicurà ‘na porzione maggiore d’eredità “. Scoppiammo in una liberatoria, sonora risata. Era il suo
primo figlio; era nato il mio primo nipote. Fin dalla prima infanzia Antonio ha trascorso molto del suo tempo a casa mia. Passavamo diverse ore insieme, in quello che io chiamo l’orto. E’ una parte
del giardino, annesso alla casa. E’ il mio abituale rifugio. Dopo aspre lotte, ho sottoscritto con mia moglie un patto di non belligeranza. Nel trattato che lo regolamenta è stato chiaramente
specificato che, per i due terzi assegnati a lei e destinati a giardino, non avrei avuto diritto di interferire o proporre soluzioni. Alla stessa non interferenza si impegnava lei per la parte
restante che mi era stata assegnata e che avrei destinata ad orto. Antonio aveva poco più di quattro anni quando pretese di essere coinvolto nella gestione del mio pezzo di terra. Gliene assegnai una
porzione; comprai, appositamente per lui, una zappa ed altri arnesi atti alla bisogna. Fu però necessario superare gli ostacoli che sua madre frapponeva. Ricorremmo a dei sotterfugi ma non
desistemmo. Il ragazzo, in poco tempo e molta fatica, imparò a rassodare e livellare il terreno. Gli insegnai quando e come seminare legumi e, a tempo debito, mettere a dimora verdure e altri
ortaggi. Attendeva e gradiva incoraggiamenti e complimenti per l’opera che tanta fatica gli costava e per i risultati che raggiungeva. Ne era avido. Era raggiante quando li avvertiva sinceri.
Accompagnato dal padre, arrivava a casa mia nelle ore più impensate per controllare se la semina aveva avuto successo. A volte rimaneva a fissare a lungo i primi germogli. Al mio chiedergli la
ragione di quell’attesa, mi guardava con il suoi maliziosi occhietti e pazientemente me ne spiegava la ragione. Voleva accertare di quanto fossero cresciute le piantine dall’ultima sua ispezione.
Sperava, e lo diceva con convinzione, di cogliere l’esatto istante in cui si allungavano. Era uno spettacolo vederlo così interessato. Curava personalmente l’innaffiatura. Fece tesoro di quanto gli
andavo spiegando circa la necessità di scegliere fra i concimi quelli che avrebbero favorito la crescita e la salute delle piantine senza alterarne la natura o forzarne il ritmo biologico. Ebbe modo
di accertare che tali accorgimenti garantivano un buon risultato.
#61
Antrefrain(lunedì, 08 maggio 2017 09:45)
Mi rivedo in quel trenino,
piccolo, assonnato e dolorante.
Mentre il rumore del treno sulle rotaie cullava il mio dormire
Risento la voce di mio padre
che mi dice dove siamo, cosa vede. Descrive fornendomi ogni particolare
Lo risento ancora dirmi, mentre attraversiamo la città dove siamo arrivati
Cosa sono quelle voci che io sento e
che non vedo e i rumori del tramvai
che prendiamo per raggiungere l’ospedale per
la cura del malanno che mi affligge.
Sento fra le mani il calore di qualcosa
che ha un profumo delizioso ed un sapore ma i provato.
Quasi avverto,
dal suo respiro accelerato, la
pena che sta provando assistendo al breve piacere che suo figlio infermo
sta godendo. Poi mi asciuga la bocca e
il viso e mi chiede come mi sento. Alzo gli occhi e non lo vedo, non posso. Gli sorrido e la stretta è più forte e caldissima è la sua mano
#60
Stelvia(domenica, 23 aprile 2017 09:57)
Che meraviglia Antonio il tuo "urlo" d'amore per la tua amatissima compagna. Quanta poesia nelle tue parole e quanto è fortunato quel colletto della tua camicia, quelle mani e quel sorriso che si
fondono con le tue e con l'amore reciproco che vi accompagna da sempre e che oggi ha il sapore ancora più intenso che vi unisce e suggella in un abbraccio di amorevole e grande affetto.
#59
Antrefrain(sabato, 22 aprile 2017 15:54)
Il nostro incontro fu dovuto al caso.
Tu eri con un altro, un tuo parente. Io ero reduce da una missione senza seguito. Eri visibilmente annoiata a quella festa quando inatteso io vi arrivai. Ero a rimorchio di un tuo cugino che ti
avrebbe accompagnata a casa. Ti guardai. Ci vedemmo. Ti chiesi di ballare, accettasti. Lo facemmo per l’intera serata, sino a chiusura della festa. Il tempo era volato. Tornai a casa con voi, con la
vostra macchina. Ci salutammo, presente tuo cugino, senza dire una parola, con una calda stretta di mano. Capimmo che ci saremmo rivisti. Quando accadde, alcuni giorni dopo, mi dicesti che di giorni,
lunghi, lenti da trascorrere, ne erano passati troppi. Non sono troppi i tantissimi anni che da quel giorno sono trascorsi e che ci hanno visti spesso e ancora ci vedono mano nella mano. Abbiamo
sorriso e pianto insieme e ancora sorridiamo e piangiamo insieme e alla stesso modo di sempre. Ora, mentre io sono dietro questo schermo e ti scrivo, tu sei di là e, riattaccando un bottone al
colletto della mia camicia, ancora sorridi pensando, poi me lo dirai, a quanto sia fortunato quel colletto.
#58
marileti(mercoledì, 21 dicembre 2016 20:29)
bello trovare i ricordi di GIULIANO
#57
Vaco(lunedì, 10 ottobre 2016 13:47)
a GIBA
un carissimo saluto.
ottavio
#56
Mariolieto(giovedì, 17 marzo 2016 17:43)
GIULIANO carissimo, sempre bello e confortante leggerti con quella tua visione della "tua" realtà - che è poi la realtà di tante altre persone - nella quale si evidenziano, ovviamente, le
manchevolezze ed i limiti (a volte, e spesso, colpevoli). La mia visione personale - da uomo davvero più che fortunato - forse mi porta spesso a soffermarmi particolarmente solo su ciò che mi è stato
concesso, senza inoltrarmi in quelle difficoltà nelle quali si trovano tanti concittadini e non solo nel campo della sanità. Dai benèfici ambienti ospedalieri che mi hanno ospitato, posso davvero
comprendere quale sia la differenza (sofferta) se mi fossi trovato anch'io in ambienti non idonei come quelli che ti hanno accolto costì: sono soprattutto gli ospedali ben organizzati e gli ospedali
male organizzai che segnano una delle maggiori negative differenze del nostro contesto sociale, nonostante la fortunata presenza di medici all'altezza del loro difficile compito.
Ti auguro ogni bene e che anche tu possa trovare conforto in strutture sempre meglio organizzate. Sarà possible? Chissà.
Per questo pomeriggio-sera tante belle cose dalla già alle porte... primavera!
#55
Giba(giovedì, 17 marzo 2016 11:29)
Nessun problema, Sari. Nessuno, Mario; ti sarai riferito a qualcosa che scrissi sul mio ricovero per un incidente, al pronto soccorso di un ospedale a Napoli, un mese fa. Infatti da allora non ci
siamo sentiti, se non per avvisare, su Parliamone, che avevo pubblicato i tuoi ricordi. I fatti son fatti: tu sei stato curato e coccolato in un ambiente settico e decente, io sono stato curato da
ottimi medici, ricucito da ottimi chirurghi, assistito da pochi infermieri gentilissimi in una caverna con letto senza cuscini, testata senza pulsante per chiamare aiuto, bagno a 20 metri di distanza
e impraticabile, al gelo il corridoio e rovente la stanza. Il tutto in un reparto di chirurgia d'urgenza senza ombra di asepsi e con gli infissi che si spalancavano al vento. No, caro governo
italiano, i napoletani non c'entrano, i medici non possono ristrutturare l'orrore ambientale. Sono scappato con la testa fasciata all'alba, dopo una notte di incubo. Forse, se fosse capitato a te,
saresti convinto che non tutto è idilliaco in questa enorme città. Altrove, sempre a Napoli, ho trovato strutture meno indecenti, sempre senza cuscini per il letto, sempre con ottimi medici. Mah,
sai, certe cose mi fanno diventare leggermente critico su questa "Regione Campania" che dei suoi pazienti se ne frega.
#54
Sari(giovedì, 17 marzo 2016 09:18)
Giba, i tuoi amici napoletani sanno di te e non possono avere equivocato.
Pensieri pubblici, pensieri privati.. che interessante argomento.
#53
Mariolieto(mercoledì, 16 marzo 2016 23:06)
Più che carissimo - e sempre attento - GIULIANO!
Non era mia intenzione menomare od infirmare i tuoi "giudizi veritieri" su Napoli; pensavo solo di scambiarci poche parole fra noi del forum. Penso che il mio "sfarfugliare" su Napoli ed i Napoletani
non esca dalla cerchia di amiche e di amici che ci conosciamo bene. Se pensassi che il mio dire possa avere un pubblico molto più vasto, starei molto attento a scrivere liberamente tutto quello che
penso: sono convinto che il nostro conversare resti fra le amiche e gli amici del forum, in tutto serenità.
Buona notte e buona giornata per domani.
#52
Giba(mercoledì, 16 marzo 2016)
Bene, Mario. Ora i miei amici napoletani saranno convinti che io non mi sua limitato a dirti che la Napoli di oggi non è più quella di allora e che, come tutta l'Italia, è diversa, peggiorata con gli
anni. Strano che tu non ci abbia pensato. Pazienza e buona notte.
#51
Matioleto(mercoledì, 16 marzo 2016 21:34)
Gratificato dalle parole di VASCO e di MARILETI... ritorno giornalmente a quella "mia Napoli" - della quale GIBA mi ha segnalato limiti ed anche eventuali buchi neri - ma che a me ha donato soltanto
il "bello" il "vero" ed il "bene": nessun graffio, nessun sgarbo e nessuno che i abbia "fatto fesso". Tutto il male che ho sentito su Napoli non mi ha mai sfiorato, ed è per questo che io parlo
sempre e solo della "mia Napoli", quella che mi ha accolto e mi ha letteralmente "salvato" come persona. Sono passato per i vicoli, anche di notte, ma ho solo sentito il profumo della "povertà
vissuta onorata"; sono stato al porto degli anni Cinquanta e vi ho solo trovato persone che ce la dovevamo mettere tutta per dar da mangiare ai propri figli. Tutti, anche allora, parlavano della
malavita napoletana, ma non mi ha mai sfiorato; per cui il mio senso di "esaltazione per Napoli" (tanto che al mio paese mi davano del "Napoletano"!) so che intimamente è solo mia, ma in me è reale e
vissuta
e nessuno da me ha mai sentito parlar male dei Napoletani e dei Meridionali: per me resta una terra sofferente e disagiata ma esemplare, che ha forgiato negli abitanti meridionali veraci una
esemplarità di vita che dovrebbe essere studiata e fatta propria da tanti altri italiani.
Grazie a VOI delle vostre benevole considerazioni: mi restano care, vicine al calore del cuore, nel quale "Napoli tutta è sempre viva".
#50
marileti(lunedì, 14 marzo 2016 18:24)
Caro Mario, ti ho letto di un fiato. Quanta solitudine e quanta forza hai dimostrato! A proposito della gratitudine per Napoli cui fai cenno, mi è tornata in mente una frase riportata da Roberto
Saviano con riferimento non ricordo a quale personaggio venuto a Napoli per il Gran Tour:
"Il golfo di Napoli è come una grande padella dove la vita frigge"
#49
vaco(lunedì, 14 marzo 2016 15:12)
Spinto dalla lamentela di marileti, ho verificato se è tutto OK in RICORDI-
A MARILETI : TUTTO OK, almeno a me!
CIAO!
ottavio
#48
vaco(domenica, 13 marzo 2016 19:05)
AL CARO MARIO ANTOLINI.
HO LETTO TUTTO IL TUO VIVERE A NAPOLI, E IN QUELLE CONDIZIONI DA TE EGREGIAMENTE RACCONTATE!
IO SONO MOLTO IGNORANTE! CON AMMIRAZIONE, DOPO LA LETTURA DEL TUO PREGRESSO, MI SON DETTO, E TUTTO SODDISFATTO DI TE: "PER ASPERA AD ASTRA!"
CHE PERSONA CHE SEI!!!!!!!!!!!
A PARTE LA COLTURA (MOLTA!) HAI QUALCOSA CHE TI RENDE INEGUAGLIABILE, IN TUTTI I SENSI!
IO, VENENDO DALLE SAITTELLE, TI HO SEMPRE CAPITO, PER MIA FORTUNA. IL TUO CURRICULUM MI E' STATO SUFFICIENTE ABBONDANDEMENTE PER CAPIRE LA TUA PERSONA.
PER ME E' UN GRANDE ONORE, QUELLO DI AVERTI CONOSCIUTO. TI RINGRAZIO DELLA TUA AMICIZIA, E DELLA RICCHEZZA MORALE REGALATAMI.
STAMMI BENE! ottavio
#47
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:18)
All’Orientale a Napoli
Ottobre 1949: con l’attestato magistrale in borsa partenza per Napoli, con un sacco di illusioni, poiché non mi ero ancora reso conto cosa volesse dire vivere nel contesto sociale. Ero ancora
imbevuto della vita collegiale, per cui non sapevo vedere gli ostacoli, non temevo il peggio, viaggiavo ancora con la testa fra le nuvole credendo che bastasse andare avanti, anche se col paraocchi
sugli occhi. Di questo me ne ho dovuto rendere conto molto dopo, ed amie spese; ancora oggi sto chiedendomi come, in molte occasioni, mi sono fidato troppo di tutto e di tutti, rischiando grosso in
situazioni in cui avrei potuto rimanere vittima dell’imprevisto ma prevedibile, se ne avessi avuto l’accortezza. Tuttavia, se fossi stato preso dalla paura, credo che sarei andato in pensione coma
semplice tipografo e, magari, neppure sposato.
Comunque… eccomi in viaggio per Napoli. Ancora aria di fine guerra: pure le ferrovie risentivano del periodo della ricostruzione, per cui per raggiunger Napoli con un solo treno non potevo servirmi
che del direttissimo Monaco-Reggio Calabria che faceva fermata anche a Trento. Vi salivo alle 21 di sera e giungevo a Napoli alle 15 del giorno successivo, magari anche sempre e solo in piedi o
seduto sulla valigia, poiché sempre strapieno degli emigranti che in quel periodo facevano la spola dal Meridione alla Germania. In quel periodo la validità del biglietto ferroviario era rapportata
alla lunghezza del percorso, per cui il mio biglietto valeva parecchi giorni. Questo particolare mi ha dato modo di fermarmi, sia all’andata che al ritorno, parecchie volte a Firenze ed a Roma; in
questa maniera ho potuto visitare non solo le due città manche tanti monumenti e luoghi d’arte, accrescendo conoscenze che non avevo avuto mai acquisito prima - infatti in Giappone si meravigliavano
che non conoscessi le opere d’arte toscane e romane - e che altrimenti non avrei più avuto occasione di conoscere adeguatamente in seguito.
#46
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:17)
Arrivo ed insediamento nella metropoli partenopea della quale non conoscevo un bel niente e neppure mi ero preoccupato di sapere qualcosa. Quindi, da ignaro “polentone” (così mi chiameranno sempre i
miei amici meridionali) mi fermo nei dintorni della stazione ferroviaria, perché era ormai pomeriggio inoltrato e pensavo di recarmi ad iscrivermi all’Università il mattino seguente. Prendo un stanza
in un alberguccio di pochi soldi nei vicoli delle vicinanze della stazione e giro un po’ nelle vie circostanti immergendomi in un trambusto cittadino che assolutamente non conoscevo. Solo più tardi
venni a sapere che si trattava di uno dei rioni alquanto malfamati e pericolosi, in cui girare da solo, e dal quale era meglio starsene lontani. Ma ormai era fatta e, fortunatamente, non subii danno
alcuno.
Il mattino successivo all’Università: segreteria, iscrizione rendendomi conto dei non sempre facili rapporti con la burocrazia università: ero davvero come un pulcino fuori dell’acqua, ma certamente
presuntuoso e, forse, troppo sicuro di me. Quindi il primo approccio con i bidelli, che sono la chiave di volta dell’Università; averli dalla tua - almeno a Napoli e allora - era sentirsi al sicuro;
ed io ebbi la fortuna che il bidello della sezione Orientale era un anzianotto che aveva fatto, da giovanotto, la prima guerra mondiale proprio sulle montagne venete; quindi immediatamente in
sintonia. Ma si pensi che, in quel periodo, il fermarsi a parlare con i bidelli era considerato quasi un “abbassarsi”, poiché anche i bidelli erano obbligati a chiamare gli studenti “dottore” ed a
trattarli coi guanti. Il mio bidello mi sollecitò a non fermarmi ed a sedermi a parlare con lui, poiché dovevo farmi da lui rispettare; una situazione che per me - ormai avevo trent’anni ed
all’Università ero considerato un “nonno” - fu un quasi un invito a nozze: mi sedetti subito con lui a chiacchierare, rievocando i suoi giorni di guerra nel Veneto; e così, durante i quattro anni che
sono stato a Napoli, tutti i giorni mi sedevo a stare con lui e nessuno ebbe mai a dire nulla. Un semplice particolare, ma cominciavo a sentirmi all’Università e quasi ad impadronirmene. Il primo
passo era fatto ed una nuova porta era ormai definitivamente spalancata davanti.
#45
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:16)
Il passo successivo fu la presentazione in Facoltà, la conoscenza dei compagni di studio, l’avvicinarsi ai professori. I frequentanti la facoltà del settore Orientale erano solo poche decine, mentre
quelli delle lingue occidentali erano a migliaia, ma tutti nello stesso edificio, pur nelle diverse ali. Durante le lezioni noi dell’orientale eravamo completamente staccati ed isolati; ma quando non
eravamo in aula, eravamo liberi di muoverci e ci trovavamo quasi sempre con gli altri studenti, per la maggior parte signorinelle ventenni. Infatti le studentesse erano numerose, e provenivano da
tutta Italia, dato che l’Orientale accettava l’iscrizione anche col solo diploma magistrale e non con l’obbligatorio diploma di liceo come per tutte le altre università.
Fra i primi compagni avvicinati mi trovai con un giovane abruzzese iscritto anche lui per la laurea in giapponese; appena seppe che ero stato in Giappone e parlavo giapponese, mi prese subito in
particolare simpatia e mi offrì di andare a condividere con lui la camera che aveva in affitto; io ero ancora senza stanza e ne approfittai. Nella stessa giornata mi portò con sé in via Rione
Sirignano, verso Fuorigrotta, lungo via Caracciolo, nella parte più signorile di Napoli. Fu come trovarmi in un altro mondo: in quella parte della città, infatti, si sente tutta la bellezza del golfo
ed a quei tempi era una zona tranquilla senza schiamazzi ed affollamenti per le strade. Ed eccomi al quarto piano di un palazzo signorile (i proprietari erano degli aristocratici, mi pare Conti),
quasi nel sottotetto, in un’abitazione di tre stanze con una arzilla vecchietta, che mi accolse a braccia aperte e mi mise a disposizione il secondo letto che si trovava nella stanza già occupata da
Derio, il mio compagno. Ci trattava come suoi nipoti, sempre amabile, ma giustamente severa nel doverci comportare con educazione e correttezza.
Non so se resta ancora con la sua specifica caratteristica “la camera degli studenti universitari”. Allora, in una città universitaria come Napoli, erano tutte stanze affittate da privati nella loro
stessa abitazione (e con essi si coabitava), e la si trovava attraverso i compagni d’università. Non so neppure se allora esistesse una particolare istituzione messa a favore ed a disposizione degli
universitari. La camera mi costava undicimila lire: più della metà delle ventimila lire che avevo a disposizione ogni mese. Ne cambiai quattro: due in Rione Sirignano, una al Vomero (che dovevo
raggiungere con la funicolare) ed una al centro di Napoli a monte di Spaccanapoli. Camere modeste; un letto, un tavolino ed i vestiti e la biancheria più sulle sedie che negli armadi; tutto in
disordine, agli occhi delle nostre mamme; però ogni cosa era trovabile al suo posto. Vita un tantino da zingari; ogni volta in situazioni diverse: prima da solo con Derio, e poi al Vomero in famiglia
di un mio compagno di facoltà che voleva lezioni di giapponese; poi con altri tre compagni calabresi nella quarta stanza; invece assolutamente più tranquilla la stanza (la seconda) al quarto piano
sempre del Rione Sirignano, in un diverso palazzo, ma presso una famiglia accogliente e partecipe, specie quando fui da solo nell’anno in cui stesi la tesi di laurea, con quasi tutte le notti passati
in bianco, grazie alle pillole di “simpamina”.
#44
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:15)
Vita di facoltà. Soldi sempre pochi, ma con la paura di chiedere prestiti, anche in famiglia. I periodi più lunghi li passai al Rione Sirignano, ma nella impossibilità di usufruire del tram n. 3 che
proveniva da Margellina ed andava alla stazione ferroviaria, con sosta sul Viale Umberto, vicino all’Università. Andavo all’Orientale a piedi lungo il percorso: Riviera di Chiaia, Via Chiaia, Piazza
Trieste e Trento, spesso attraversavo la Galleria Umberto I,poi penso per via Toledo o altre viuzze interne, quindi Piazza del Gesù, via Benedetto Croce e Palazzo Giusso: sede universitaria. Credo
che impiegassi più di mezzora tutti i giorni, andata e ritorno. Per i pasti andavo generalmente alla mensa universitaria, che credo sia stata normale e sufficiente anche in quegli anni Cinquanta,
perché non ne ho tristi ricordi; qualche volta andavo ad un piccolo ristorante, in un vicolo di Corso Umberto, alla mensa con operai e impiegati e poca spesa. Per tutti i quattro anni a cena solo un
quartino di latte e 250 grammi del buon e saporito pane di Napoli. Fortunatamente non ha mai patito né la fame e né la sete: una caratteristica che ho avuto da sempre ed anche oggi mi è confortante
compagna ed i pasti non sono una preoccupazione: basta poco cibo, di qualsiasi specie, e niente verdura e niente frutta; quindi libero al massimo e, grazie a Qualcuno, sempre in salute.
In quegli anni gli studenti, maschi e femmine, dell’università che frequentavo, erano per lo più non napoletani e venivano da tutte le regioni d’Italia; avevo parecchi amici anche del settentrione.
Questa particolarità faceva sì che, non avendo casa e la camera in affitto non era sempre confortevole ed usufruibile al di là del dormirvi, l’università era diventata la nostra casa: vi giungevamo
al mattino e tornavamo a casa nel tardo pomeriggio dopo ore di lezione, di studio, di biblioteca, di chiacchiere, di discussione, di scambio di idee e di informazioni e con “uscite” in compagnia
verso qualche cinema, qualche teatro, qualche mostra, qualche altro avvenimento culturale. E fu così che ho imparato ad apprezzare l’università “vissuta”, poiché mi sono reso conto l’università non è
fatta di sole lezioni e di apprendimenti libreschi, ma di qualcosa di molto di più; per cui anche alle mie nipoti ad a tanti altri studenti suggerisco sempre di iscriversi ad università lontane da
casa per non aver l’occasione di trovarsi vicini alla proprio abitazione con la possibilità di andate e ritorno o giornaliere o settimanali. Vivere l’università vuol dire non solo assistere alle
lezioni, ma confrontarsi con i propri compagni di facoltà ed anche con gli altri compagni delle altre facoltà; vuol dire poter andare ad ascoltare lezioni anche di argomenti diversi da quelli
necessari per la propria laurea; vuol dire sentire la città universitaria che ti attornia e che è pregna di secoli di storia e di iniziative culturali da poter assaporare e fare proprie.
#43
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:14)
Per me è stato così. Venendo dal Trentino ogni periodo di frequenza universitaria voleva dire rimanere a Napoli alcuni mesi senza possibilità di ritorni in famiglia. Perciò anche lunghe giornate da
solo; le ore serali, in attesa della cessazione del chiasso in strada per studiare in silenzio, passate alla “Villa” (ampi giardini lungo Via Caracciolo) a giocare a clipper od a passeggiare lungo il
viale che lambiva il golfo dalle mille luci. Poi in città ore passate a Spaccanapoli e giù fino a Forcella in mezzo a quella vivacissima vita napoletana, nella quale solo al passarvi hai tanto da
imparare e da portare a casa in ricchezza di vita sociale. E le serate al porto, con qualche compagno, fra le truppe americane, composte di tanti negri, e con i quelle persone emarginate dalla “buona
società” e considerati bassifondi, e fra le quali, invece, specie io che venivo da ben altre esperienze, ho trovato tanta umanità vera che mi fatto capire di che cosa realmente fosse fatta la
società.
E tutto questo insieme di vita frammentata e diversificata è stato indubbiamente il fondamentale apporto di Napoli alla mia “resurrezione”: l’essere vissuto da me solo e solo come me, senza che
nessuno sapesse chi fossi e che cosa avessi alle spalle. Sarà stata un’esperienza anche sofferta, ma magnifica, entusiasmante e gratificante. Forse in quelle giornate avrò anche bestemmiato; avrò
pensato anche di prendere una nave e scappare come hanno fatto alcuni miei giovani compagni in quei turbolenti (interiormente parlando e non solo) giorni. Avrò certamente vissuto ansie e crisi
indicibili, ma che ho dovuto superare da solo e dalle quali sono riuscito ad uscirne certamente cambiato e migliorato: ma non so ancora spiegarmi il come; tuttavia, se oggi sono qui a 95 anni a
ricordarlo, vuol dire che qualcosa di fondamentale per la mia esistenza, veramente Napoli me lo ha saputo generosamente e gratuitamente regalare.
#42
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:13)
La cronaca dei tre anni, ciascuno a se stante, non la trovo in nessuno dei miei scritti; quindi non ne sarei capace di stenderla. Ricordo l’alternarsi dei 49 esami (in libretto), poiché nelle quattro
lingue da studiare (giapponese, cinese, russo e inglese) ogni esame scritto era a se stante: voto per la traduzione dal, voto per la traduzione in, e voto per l’orale. Le materie complementari erano
parecchie, ma del tutto estranee all’Estremo Oriente. Siccome non vi erano a disposizione esperti dell’Estremo Oriente ho dovuto studiare l’etnografia africana con il professore di settore
(antipatico e presuntuoso), e per la storia dell’oriente ho dovuto impegnarmi sulla “storia dell’India” con un professore che veniva da Roma solo per me: ne concordavamo periodicamente le date di
frequenza tra noi due. Gli “esami sciocchi”, che non avevano nulla a che fare col giapponese e con l’estremo oriente, erano parecchi e li facevamo solo con informazioni superficiali e per forza; ma
in cultura tutto fa brodo; nulla va perduto e tutto arricchisce. Per lo studio del cinese, negli ultimi due anni, ebbi un padre francescano che veniva dalla Cina; entrammo subito in sintonia, quasi
in amicizia. Mi dava lezioni da solo al vicino Concento di Santa Chiara, nel magnifico giardino, di cui soltanto successivamente mi resi conto della sua peculiarità artistica.
Né dimenticherò Pompei per due specifici aspetti. Alla Madonna di Pompei era assai devoto mio padre - e conseguentemente poi tutta la mia famiglia - poiché in occasione del periodo in cui Mamma Maria
era stata ammalata, il papà si era recato a Pompei a chiedere la grazia della sua guarigione alla Madonna del Rosario; tornato a Tione ebbe la notizia che la Mamma sarebbe stata rilasciata guarita
dalla clinica. Con quel ricordo in cuore, specie prima degli esami più importanti, mi alzavo alle cinque, col treno delle sei della Circumvesuviana andavo a Messa al Santuario e per le nove era in
Università per le lezioni o per gli esami. Altro particolare per gli scavi di Pompei; all’Orientale venivano di frequente vari stranieri a chiedere qualcuno che sapesse la loro lingua per essere
accompagnati ai famosi scavi; la felice occasione l’ebbi anch’io e così, a spese degli altri, visitai più volte quei luoghi archeologici ricchi di storia e di arte.
#41
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:12)
E venne il momento della tesi. Tutti gli anni, per risparmiare, facevo comperare i testi d’università a qualche mio compagno, promettendo di restituirgli con il riassunto e gli appunti scritti.
Perciò era ormai mia abitudine passare le notti chino sui libri ed a scrivere - naturalmente a mano perché non avevamo a disposizione la macchina dattilografica - pagine e pagine di “appunti”, che
poi spiegavo e davo ai miei compagni nei quotidiani ritrovi pomeridiani in università. Così fu per la tesi; d’accordo col professore concordammo su una tesi di storia giapponese: “L’era Meiji”, ossia
il passaggio del Giappone dalla sua plurisecolare chiusura al mondo in assoluta autonomia, alla sua apertura al mondo occidentale, sotto la prepotente imposizione degli Americani all’ombra delle loro
potenti navi da guerra. Purtroppo non avevo a disposizione testi italiani sull’argomento, per cui dovetti consultare parecchi testi in francese ed in inglese, con ore ed ore chiuso nella biblioteca
dell’università, e cercando di avvalermi delle lezioni di francese nei tre anni di Milano, e quelle di inglese nei tre anni di Ivrea, più le sporadiche sperimentazioni in Giappone a fine guerra. Nei
mesi che tornavo a casa battéi la tesi tutta a macchina, sulla vecchia Reghminton nell’ufficio di papà, in sei copie di carta riso e rilegata a regola d’arte da mio fratello Dino. Quando ne ebbi
preparato la prima stesura la sottomisi al giudizio del mio professore di giapponese, il quale mi disse la stesura aveva più della forma giornalistica che della forma specifica della storiografia; mi
invitò, quindi, a ricomporla per l’anno successivo che me l’avrebbe valutata scolasticamente molto di più. Ma io non potevo permettermi un altro anno a Napoli, per cui cortesemente gli chiesi di
accettarla come era, che mi sarei accontentato della conseguente valutazione minore; accettò la mia richiesta, per cui feci tutto il lavoro di cui sopra, aggiungendo a mano, su ognuna delle sei
copie, tutti i nomi giapponesi scritti obbligatoriamente con i caratteri cinesi classici.
#40
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:11)
Il giorno della discussione ero a letto con 39° di febbre. Naturalmente nessuno di famiglia era potuto venire fino a Napoli per l’occasione. La padrona di casa indifferente; i miei due compagni di
stanza erano di altra facoltà e la mia laurea non li interessava. Per cui mi presentai, con gli altri laureandi, e affrontai con calma la discussione e la breve conversazione in Giapponese. Vista la
media alta del libretto, mi diedero un 103 che per me voleva dire poter andare a casa e presentare, a mio padre, suo figlio “dottore”: l’unica grande e vera soddisfazione/gratificazione dell’aver
raggiunto il dottorato, poiché per i laureati in giapponese non vi era alcuna possibilità di intraprendere qualsiasi lavoro. Dopo la laurea - festeggiata dai miei colleghi altrove e senza la mia
presenza – io di corsa a letto con altri due giorni di degenza; quindi il treno ed il definitivo rientro a casa, ricevuto semplicemente alla stazione autocorriere da mio padre, con il suo normale
quasi silenzioso ma cordiale saluto e il caffè al bar, e poi a casa nella normalità di sempre, e senza il pranzo o la festa di laurea. In casa Antolini non si diede mai segni di particolare
esuberanza, in festeggiamenti o regali, ai successi dello studio: studiare era soltanto era un comune dovere e doveva essere normale che si conseguissero i risultati del caso, senza bisogno di altri
riconoscimenti. Da buon laureato, la mattina seguente al mio arrivo da Napoli, il ritorno in tipografia con la sorpresa di una “telara” nuova, come se nulla fosse avvenuto. Come ricordato in
antecedenza, la laurea riuscii a festeggiarla unicamente offrendo la cena agli amici de “La Boidóra”all’osteria “Le Porte” di Cìmego, rimasta caratterizzata dal manifesto dipinto da Bruno Ballìn con
la bomba atomica che lanciava da una parte la veste talare verso il cielo ed il corpo del Mario dall’altra parte verso la terra.
Università di Napoli con la laura in giapponese: un inutile sforzo di studio ai fini professionali; soltanto il “saldo” fra me e mio padre: l’anello di congiunzione fra passato e futuro, ristabilendo
un equilibrio spezzato e rimasto in silenzioso bilico per lunghi sei anni: maggio 1947, ottobre 1953!
#39
Mariolieto(domenica, 13 marzo 2016 11:10)
Napoli. - Napoli per me ha voluto dire che cosa voglia dire essere “te stesso” e come tu ti debba scegliere modi di pensare, comportamenti con te e con gli altri, ed ancora modi di vita che il
collegio non può trasmetterti. La vita di collegio ti forgia dal punto di vista culturale ed anche formativo e professionale, ma ti impedisce di vivere i condizionamenti familiari e soprattutto ti
priva di percepire la società che si trasforma, la società in cui gli uomini lavorano e combattono, la società in cui ciascuno deve porsi nei confronti degli altri con le proprie forze, con le
proprie capacità, seppur con i propri limiti, dei quali ci si deve rendere conto. L’essere passato dalla vita religiosa alla vita di lavoro in tipografia era già stato un grande primo passo; ma avevo
bisogno di essere lasciato solo con me stesso per riuscire a comprendere di che pasta fossi fatto e che di che cosa fossi capace di fare senza l’aiuto, l’appoggio ed il sostegno degli altri. E per me
Napoli ha costituito, appunto, questo punto di verifica; una verifica che affrontavo senza saper come e che ho dovuto passo dopo passo quasi assalire nel corso delle circostanze che si accavallavano
impreviste ed improvvise e che dovevo attaccare con le sole mie forze. Credo davvero che quella sia stata una vera “lotta per la vita”, dalla quale ne sono uscito rafforzato e pronto ad accettare ciò
che la provvidenza voleva da me: il maestro ed il marito-padre. Per questo, se il Giappone rimane un’esperienza ineguagliabile, Napoli invece rimane l’insostituibile crogiuolo, in cui il metallo fuso
di me stesso ha potuto rendersi l’essenza della mia attuale identità di uomo. E con tutto questo, anche ciò che Napoli mi ha insegnato nel modo di accettare e di vivere il presente, con quella
duttilità di comportamenti che impreziosiscono i napoletani veraci. E la città, il mare, i monumenti, il Vesuvio, Pompei: ed il “sapore” di Napoli che- se lo sai percepire ed assaporare - ti resta
dentro e te lo porti con te per sempre. Fui orgoglioso di essere stato battezzato dai miei compaesani “napoletano” quando esaltavo i napoletani ed il loro saper vivere, gioiosamente soffrendo,
qualsiasi circostanza della quotidianità. Il mio “grazie” a Napoli rimarrà imperituro.
#38
vaco(giovedì, 31 dicembre 2015 12:31)
CARO ANTONIO (RISANATO!!!!!!) AUGURONI IN TUTTI I SENSI
ottavio
#37
Antrefrain(sabato, 26 settembre 2015 20:33)
Caro Giuliano, amico mio carissimo è vero. Mi fanno risentire la canzone napoletana Tiempe belle 'e 'na vota.' tiempe belli addò state, vuje c'avite lassate.................
#36
Giba(sabato, 26 settembre 2015 12:09)
Perché ho l'impressione che Capri ti richiami alla memoria gli anni, così vicini, della gioventù dorata? Perché Antonio?
#35
Antrefrain(sabato, 26 settembre 2015 11:42)
Qualche tempo dopo
Avvertì una mano che la scuoteva leggermente nel tentativo di svegliarla. Le giunse la voce della figlia che l’avvertiva che alla radio stavano dando un programma di canzoni napoletane che lei tanto
amava. Mentre lottava con Morfeo che voleva ancora tenerla fra le sue accoglienti braccia, la voce di Guido Lembo, quella voce inconfondibile e leggermente rauca stava cantando: Si stu ciore torna a
maggio…..
Si alzò, improvvisamente sveglia, dalla poltrona. Dalla finestra vide che aveva ripreso a nevicare e che i fiocchi avevano ormai ricamato, sino a coprirlo, una candida coltre sul verde prato.
Era stato un sogno?
Era forse un dolce, piacevole ricordo?
Forse era stato, forse, solo il ripetersi di un sogno indimenticabile ma mai vissuto.
#34
Antrefrain(sabato, 26 settembre 2015 11:39)
L’aereo è decollato da alcuni minuti. Lei, seduta nella poltrona accanto all’oblò, si obbliga a non guardare in basso. Non riesce ad accettare l’idea che sia tutto finito, che sta vivendo l’atto
finale di questa incredibile e meravigliosa esperienza. Non vuole convincersi, se dovesse guardare il mare che l’aereo sta sorvolando, che sta lasciando quella terra e che da domani ne sarà
lontano.
La pervade un sentimento di dolorosa tristezza perché avverte che già le manca qualcosa. Unica consolazione è la consapevolezza che quando lo vorrà o ne sentirà più struggente il bisogno, potrà
aprire lo scrigno ove ha riposto il prezioso ricordo delle tante ore liete vissute e dei tanti momenti trascorsi in compagnia di Andrea.
Andrea……Quel nome ha il potere di evocare il ricordo di quanto sia stato gradevole il tempo trascorso in sua compagnia in quei posti incantevoli e quanto affetto e dedizione le ha dedicato in quei
giorni.
Ed allora lascia che i ricordi le inondino la mente lasciando liberi i pensieri di riandare alle ultime ore trascorse sull’isola dell’amore.
Il sorgere del sole li aveva trovati ancora sul Belvedere Cannone. E d’incanto quel luogo che nei secoli aveva ospitato angosciosi silenzi, fu testimone di una esplosione di felicità. Andrea si era
girato verso di lei, l’aveva fissata intensamente e lei non aveva voluto distogliere lo sguardo. Dolce e calda la sua mano le aveva sfiorato il viso con una tenera carezza. L’aveva attirata a se. Mai
abbraccio fu più tenero, più appassionato, meno disperato, più intenso, più completo. I loro corpi si cercarono, si ebbero in un abbandono totale che li consegnava ad un piacere che era cresciuto in
loro ed a cui non sapevano e non volevano più opporsi. Lei aveva offerto agli sguardi dell’uomo il suo corpo ancora giovane perché vi frugasse e ne facesse vibrare ogni più riposto desiderio, felice
finalmente di poter sentire, assaporare, godere quel cocente raggio di sole che tanto aveva sognato. E quando un fuoco ardente le bruciò l’anima strinse con violenza sul suo seno quel viso che tanto
le donava.
Esausti e felici, senza avere la forza e la voglia di staccarsi, attesero il nascere del giorno e l’avanzare delle ore guardando la immensa distesa di mare che aveva cullato il loro sogno e le barche
di pescatori che cariche di fatica e di scarsa resa ridavano alle donne in attesa i loro uomini.
Era ormai giorno inoltrato quando, a malincuore, presero coscienza di dover tornare alla realtà. Lungo la strada comprarono cornetti caldi ad un forno già aperto. Li mangiarono seduti ad uno dei
tavolini di un bar della Piazzetta ancora deserta. Gustarono un buon caffè al chiosco nei pressi della funicolare. Giunsero appena in tempo al porto. L’aliscafo era pronto per la partenza. Durante la
traversata non si allontanarono neppure per un solo attimo l’uno dall’altro. Restarono muti a guardare il solco d’acqua che la prua aveva aperto e che richiudendosi pareva ritmare e rappresentare la
brevità del percorso che ancora restava da compiere e lo scorrere inesorabile del tempo che ancora era loro permesso di vivere insieme. Lentamente, come il risveglio dopo un sogno indimenticabile,
quel naturale ricomporsi delle acque segnava il definitivo allontanarsi dall’isola che aveva loro donata attimi di felicità.
Di tutto quanto avvenne dopo ricordava solamente la veloce corsa all’albergo per ritirare i bagagli e quella in macchina per giungere in tempo all’aeroporto. Rivedeva ancora la infinità di saluti che
si erano scambiati quasi ad esorcizzare il dolore ed a tentare di allontanare per quanto possibile il momento del distacco. Le era rimasto impresso il timido, quasi impacciato saluto intriso di
malinconia. che aveva rivolto ad Andrea dalla scaletta dell’aereo.
#33
Antrefrain(sabato, 26 settembre 2015 10:38)
Cara Marileti.
Il tuo essere scrittrice vera ti ha consentito di individuare il punto lacunoso del mio scritto. Hai perfettamente ragione. Un altro o altri personaggi avrebbero reso più agile e forse anche più
interessante il racconto. Vorrei però precisare che il mio non è racconto ma unicamente qualcosa di etereo, immaginario, un sogno descritto mentre si attraversano e ammirano gli stupendi paesaggi e
località della nostra amata terra che fanno da cornice. Quanto dico è rilevabile di più e meglio dalla ultima puntata con la quale assegno definitivamente un posto fra i sogni alla vicenda. Grato per
avermi letto.
#32
marileti(giovedì, 24 settembre 2015 11:15)
Caro Antonio, dai commenti in parliamone, avrai capito che ti ho letto e aspetto il seguito. Se posso darti un consiglio, fa intervenire una terza persona, così tutto sarà più vivace.
#31
Antrefrain(martedì, 22 settembre 2015 14:15)
Rieccomi.
Prima dello stretto cunicolo che immette nella grotta veniamo trasbordati in una barchetta con soli due posti disponibili oltre il vogatore che, appena dentro declama:
Jamme, nennèlla mia, già la varchetta è pronta
Stu core è n’allegria, te dice viene, viè……
E dint’a grotta azzurra haje da venì cu mme!
Vide, tra li campagne, Meta, Sorrento e Vico…….
De Massa li muntagne sfilene ‘nnanze a te.
E dint’a Grotta Azzurra t’abbracciarraje cu mme.
Mo ca te tengo a lato, ‘ncopp’a sta varca mia
Pare che mo so’ nato lu cielo pe’ gudè…….
Jamme a la Grotta Azzurra voglie murì cu tte.
Guido Lembo è, attualmente, il vero imperatore di Capri. La sua taverna “Anema e core” è tappa obbligata per chi, a partire dalla tarda serata, desidera trascorrere ore in allegria ed ascoltare le
più belle canzoni napoletane.
Guido, che mi conosce, ci accoglie con cordialità e si intrattiene qualche minuto con noi. Restiamo alcune ore ascoltando canzoni e partecipando ai cori che Guido organizza e dirige. Mi stupisce
grandemente la gioia della mia amica che mostra non solo gradimento ma è completamente immersa nella atmosfera di gioiosa spensieratezza che le melodie e la voce e la chitarra di Guido sanno creare.
Accenna persino ad un principio di esibizione canora in napoletano ridendo sino alle lacrime, per la sua prima esibizione in dialetto napoletano. Guido nota la scena, le sorride ed in omaggio e
riconoscimento della sua bravura e voglia di partecipare,, le dedica “Era de’ maggio”. Con evidente piacere e mostrando l’immensa gioia che quella dedica le procura, ascolta quella antica canzone e,
alla fine, pare persino commuoversi.
E’ quasi l’alba quando lasciamo il locale. Nessuno dei due mostra segni di essere stanco. Non ci riesce, non vogliamo porre fine al girovagare. La notte è nostra.
Le propongo di assistere allo spuntare dell’alba dal belvedere Cannone. Accetta con entusiasmo.
#30
marileti(giovedì, 17 settembre 2015 12:42)
Antonio latita e Ottavio ci riporta al sabato fascista.
#29
vacoepressa(sabato, 12 settembre 2015 11:06)
Al risveglio mattutino mi è venuto in mente:"Il sabato fascista"
Si tratta di un episodio di circa 80 anni fa. Tensione in mamma e papà. Avevano bussato alla porta i carabinieri, chiedevano di mio fratello Giovanni: e perché non si era presentato all'adunata del
sabato fascista. Seguì un discorso poco piacevole, che si concluse al momento per mio fratello di circa due anni più grande di me, con l'andata in caserma. Il balilla moschettiere Giovanni non aveva
rispettato la Legge.
Cosa da ridere o piangere?
Riflettete!
ottavio
#28
vacoepressa(giovedì, 10 settembre 2015 15:50)
Antrefrain,
carissimo amico. Innanzitutto come procede la riabilitazione? Poi vorrei dire una cosa, e già da alcuni giorni. Scrissi di quando al Liceo Cuoco, noi studenti scioperammo. La sorpresa è stata che,
per caso da me non voluto, sono stato citato come aver scritto anche io qualcosa di importante. Diverso è il tuo racconto della visita (direi:guidata fatta da te). C'è una didderenza enorme da come
tu scrivi, da grande "penna", e me che sono terra terra.
Un carissimo saluto, ottavio
#27
vacoepressa(sabato, 05 settembre 2015 13:52)
CHE AMICHE E CHE AMICI CHE HO. SIETE TUTTI MERAVIGLIOSI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
#26
marileti(giovedì, 27 agosto 2015 11:25)
A me non fa piangere i ricordi, io ero al posto della signora a prendere il vento in faccia e a bearmi dell'azzurro del mare che si confonde col cielo.
P.S. mi è piaciuto molto il riferimento alle Santa Rosa
#25
Giba(giovedì, 27 agosto 2015 10:47)
Mo' pure tu credi che non leggiamo quello che scrivete? :))))))))))) Bella immagine, fa piangere i miei ricordi!
#24
Antrefrain(martedì, 25 agosto 2015 14:58)
A Conca dei Marini non troverete caseggiati enormi o palazzoni tipo alveari. Solo case sparse nel verde. Il bianco la fa da padrone; è il colore dominante. Tutte hanno la classica loggetta e la scala
esterna e si specchiano in un mare azzurro “denso come metallo fuso”.
Il silenzio è interrotto solamente dal cinguettio degli uccelli e dal rumore del battito delle ali dei gabbiani.
Quando ci fermiamo in un bar per qualche attimo di riposo e rinfrescarci gustiamo una vera leccornia. E’ qui infatti che è stata inventata dalle monache di clausura del locale monastero la
sfogliatella Santa Rosa che si differenzia dalla sfogliatella riccia normale perché è di proporzioni maggiori e, alla normale imbottitura alla crema, viene aggiunto un misto di frutta fresca a
pezzetti completata con una o più amarene sciroppate.
E’ ormai pomeriggio inoltrato quando facciamo ritorno a Sorrento. Lascio la macchina in un garage. Poi, a bordo di un aliscafo veloce ci imbarchiamo per Capri.
Dopo pochi minuti siamo all’altezza delle “bocche di Capri”, un tratto di mare scoperto che divide la estrema punta della costa dall’isola..
La mia amica, che è sempre rimasta a poppa dell’imbarcazione, preferisce restarvi incurante che in quel tratto scoperto il mare sia mosso. E’ felice di sentire sul viso gocce salate portate dagli
spruzzi di salsedine strappati al mare dalle folate di vento che le scompigliano la bionda chioma e le imporporano il viso.. Aggrappata al passamano di ottone sembra voler sfidare il vento che con
prepotenza vorrebbe ricacciarla all’interno e impedirle di ammirare e godere la stupenda bellezza della costa che si allontana e l’incommensurabile spettacolo offerto dall’isola che sembra correrle
incontro offrendosi a chi arriva.. E’ contenta e mostra una felicità da far pensare ad una studentessa in gita scolastica. Il suo viso è meno tirato, più disteso, il sorriso più aperto quasi radioso
ed il suo sguardo irradia gioia e calore. E’ bella, come lo è la libertà, di quella beltà che nessun condizionamento può minimamente offuscare. E’ l’immagine della libertà di essere se stessi.
Appena sbarcati ci avviamo verso la funicolare. In prossimità del pontile dove sono ormeggiate le barche che portano i turisti alla grotta azzurra, incontro l’amico Natalino che, nonostante l’età
avanzata continua ad essere al suo posto di comando della flottiglia di imbarcazioni. Abbracciandomi col calore di sempre mi dice: !sumigliate sempe cchiù alla buonanime di vostro fratello(Non mi
chiede della signora che è con me. La legge sulla privacy a Capri viene rispettata sin dai tempi di Tiberio).
Ordina ai suoi di riservare due posti sul “gozzo” in partenza per la grotta azzurra. Raccomanda al timoniere di fornirci ogni assistenza. Mentre ritorna ad occuparsi dei suoi affari mi saluta
dicendomi:”Ce vedimme cchiù tarde e salutammo pure ll’amici. La mia amica sorride. Ha capito quasi niente di quanto Natalino ha detto ma intuisce l’atmosfera di amicizia di antica data che mi lega a
quell’uomo.
#23
marileti(sabato, 22 agosto 2015 11:46)
Ho percorso molte volte Forcella per andare a Pietro Collettadove prendevo un filobus e me la ricordo brulicante e chiassosa, oggi non so. In quella strada sentii per la prima volta la parola
femminiello della quale il significato mi fu chiaro solo molti anni dopo. Grazie a te sono tornata in quella baraoda, ma la signora avrà la testa come un pallone e i piedi... dopo le scale di
Positano aggiunte al resto del percorso a piedi.
#22
Antrefrain(venerdì, 21 agosto 2015 18:17)
All’incrocio con via San Biagio dei librai giro a sinistra diretto in
via Duomo. Non rientra nel mio programma far visitare alla mia ospite la Cattedrale e le meraviglie del tesoro di San Gennaro ma mi piace mostrarle anche qualche angolo dell’altra Napoli, la Napoli
diversa.
Superato l’incrocio di via Duomo arriviamo in Piazza Crocelle ai Mannesi, avamposto di via Forcella, strada una volta famosa perché vi era un fiorente mercato di merce di ogni genere e soprattutto di
sigarette americane di contrabbando, immortalata da Marotta in uno degli episodi del suo “Oro di Napoli”; la strada nella quale la illegalità era diventata la norma..
Era sempre brulicante di persone tanto da essere definita, persino dai napoletani,istericamente chiassosa. Tutto avveniva alla luce del sole, senza alcun controllo.
Per questa ragione si ipotizzò che quelle attività illecite fossero tollerate perché garantivano la sopravvivenza a coloro che non avevano possibilità di accedere ad un lavoro normale.
Prendo sottobraccio la signora e imbocco via Forcella. La strada è quasi deserta; versa in uno stato di degrado e abbandono che fa pensare a località da terzo mondo. Poche botteghe aperte. Il
Supercine, una sala cinematografica adibita a suo tempo anche a spettacoli di varietà, chiuso con ingressi sprangati e ridotto a ricettacolo di ogni sorta di immondizia.. Lungo la strada, sulla
sinistra, quasi a simbolo dei tempi andati, una sola “bancarella” che espone alcuni pacchetti di sigarette dietro cui siede, quasi mummificata e in apparente catalessi, una vecchia, grassa popolana
dall’aria stanca e con la faccia da ebete.
I balconi che danno sulla strada quasi tutti chiusi; assenza quasi totale di panni stesi; pochi passanti, frettolosi e silenziosi, nessun suono, niente rumori o canti. La mia amica è meravigliata,
non capisce. Avverte da sola la enorme differenza col resto della città, con le strade che poco più a monte brulicavano di umanità, di calore, di vita.
Mi guarda incuriosita. Mi dice che le sembra di non essere più a Napoli, Ed allora devo spiegarle che in queste zone, la camorra, quella che il cantautore Gragnaniello definisce “’na manica ‘e
fetiente” contro cui si scaglia anche Pino Daniele in alcuni dei suoi brani, ha ucciso la vera anima di questa gente privandola della voglia e della gioia di vivere, E’ stata costretta, con le
minacce e le sopraffazioni, ad adattarsi a vivere nel timore e nella vergogna.
Siamo giunti quasi a metà della strada e precisamente all’altezza del vico delle Zite e immediatamente dopo del Vico Scassacocchi, quando la signora si ferma d’improvviso, poi si allontana di qualche
metro, legge la targa posta all’inizio del vicolo ed esclama ad alta vove:”Ma allora è vero; vico Scassacocchi esiste, non è una invenzione”. Io le do conferma e la invito a proseguire.
In piazza Calenda, all’altezza del Trianon, antico teatro dove venivano rappresentate le famose “sceneggiate”, prendiamo un taxi e riaccompagno la signora in albergo.
L’indomani, come era stato convenuto, passo a prenderla di buon mattino. Ho programmato come meta una rapida escursione a Posillipo per ammirare dall’alto lo scenario del golfo e da dove si può
spaziare con lo sguardo sino a villa Rosbery, residenza estiva del Presidente della Repubblica, per poi poter raggiungere la zona flegrea.
Visitiamo Pozzuoli, il lago d’Averno, Lucrino e Varcaturo. Poi imbocco la tangenziale per raggiungere l’autostrada Napoli-Salerno. Dopo circa un’ora siamo a Sorrento diretti verso la costiera
Amalfitana. A Sorrento, mescolati ai turisti che anche d’inverno affollano questa meravigliosa città di mare, gironzoliamo per Corso Italia e diamo uno sguardo ai negozi di via degli aranci e poi giù
di corsa a Marina Grande.. Ci divertiamo ad entrare in alcuni negozi ad ammirare e provare oggetti di artigianato locale, La mia amica compra alcune cose per sé ed altre da regalare ad amici e
parenti. Quando usciamo dalla bottega artigiana nella quale ha comprato un paio di pantofole le racconto che una leggenda vuole la città fondata da Ausone, figlio di Ulisse e della maga Circe.
Commento dell’attenta ascoltatrice: E bravo il nostro Ulisse. Mentre Penelope faceva e disfaceva…..il signorino………..
Il tempo, sempre più tiranno, vola. Desidero farle vedere almeno parte della costiera e delle sue meraviglie.
Lasciata Sorrento, ci dirigiamo in macchina ad Amalfi avendo come meta Conca dei Marini. Facciamo delle soste necessariamente bervi a S.Agata sui due Golfi e Positano e dopo aver visto ed ammirato da
Ravello uno scenario che non ha uguali al mondo, ci dirigiamo a Conca dei Marini, vero incanto per la particolarità del sito.
#21
marileti(venerdì, 22 maggio 2015 10:53)
Povera signora! Le hai fatto percorrere troppa strada tutta in un giorno
#20
Sari(martedì, 05 maggio 2015 09:42)
:)))
#19
Antrefrain(domenica, 03 maggio 2015 16:37)
Mentre mi accingo a riprendere a riportare altra puntata della “Cronaca di un itinerario turistico reale per un incontro vacanziero immaginario” invito i lettori e rivedere quanto scritto ai numeri
6-7 e 8
Mentre Teresina, guidata con redini basse trotterella percorriamo a ritroso via Caracciolo e via Partenope, costeggiando il mare che abbiamo alla nostra destra.
Superata la rotonda Diaz vediamo venirci incontro il Borgo Marinari e Castel dell’Ovo.
Teresina, impettita e con la criniera al vento, percorre veloce via Acton ed in poco tempo ci porta al molo Beverello.
Chiedo al cocchiere di fermare e farci scendere all’altezza della Stazione Marittima perché voglio fare ammirare alla mia ospite Castel Nuovo-Maschio Angioino-, Piazza Municipio e le aiuole fiorite
che abbelliscono e contornano lo spazio antistante il Castello dove le coppie di novelli sposi vanno a farsi ritrarre in abiti nuziali sotto lo sguardo interessato di tutte le ragazzine che, avendo
marinato la scuola, vanno a trascorrervi qualche attimo di lieta spensieratezza col boyfrend.
Attraversata Piazza Municipio, e superato l’ex albergo Londra – quante ore ha trascorso lavorando all’uncinetto su uno di quei balconi che affacciano sulla piazza, Titina de Filippo quando era
impegnata in recite al vicino Teatro Mercadante – imbocchiamo via Medina. Giunti a Piazza Dante passiamo per Portalba, e dopo aver dato uno sguardo al Conservatorio di musica San Pietro a Maiella,
uno dei più famosi d’Italia, iniziamo la discesa di via Tribunali.
Guardo la mia ospite. Cerco sul suo viso, nei suoi occhi un segno che mostri una qualche sensazione, una emozione.
E’ ammirata, stupita, incredula. Lo spettacolo, per lei sicuramente nuovo, inusuale di tanta, troppa gente per le strade; il continuo vocio che si sente la cui intensità caratterizza le diverse
strade che attraversiamo; quel vivere la strada, per e con la strada, la continua, incessante, coinvolgente necessità di comunicare sempre e comunque, la attrae.
Mi accorgo anche degli evidenti segni di stanchezza che rendono urgente e necessaria una sosta per rinfrancare e fare riposare le stanche membra.
Appena dopo Piazza Miraglia, immediatamente dopo l’inizio di via Tribunali, c’è una antica pizzeria, La “Accademia della pizza” mio abituale rifugio nei primi due anni di Università dove ho bruciato,
in lieta compagnia, quasi tutti i soldi che ricavavo dalla vendita dei libri che mio padre, togliendosi, nel vero senso della parola, il pane di bocca, comprava. Era allora necessario ricorrere ai
testi della biblioteca di facoltà.
Entriamo. Mi accorgo, con grande meraviglia, che niente è cambiato. La sala è la stessa, non ampia ma accogliente ed i tavoli sono quasi tutti occupati da coppie di giovani studenti.
Interpello con lo sguardo la signora che, sorridendo mi sussurra: Perché no? Sarà bello anche per me ricordare quei tempi, rivivere l’atmosfera di goliardica spensieratezza e gustare finalmente
questa vostra tanto decantata pizza in un posto che si fregia dell’appellativo di accademia della pizza.
E, ragione che non posso più trascurare, ho proprio necessità di restare per qualche tempo seduta per dare riposo anche alle mie stanche estremità.
Restiamo nella pizzeria abbastanza tempo per dare modo alla signora di rinfrancarsi. Il tempo vola. Mentre gustiamo una ottima pizza ci scambiamo notizie che ci consentono una migliore e più
approfondita, reciproca conoscenza.
Salutati con grande cordialità dai gestori del locale, riprendiamo il nostro cammino.
Percorriamo ancora un tratto di via Tribunali sino a Piazza San Gaetano e scendiamo per San Gregorio Armeno, la strada dei pastori e dei presepi. Non vi è la folla del periodo natalizio ma
l’atmosfera che vi si respira è la stessa. Un luogo fuori del tempo. Ed è proprio in questo breve tratto di strada neanche troppo largo ed ormai famoso in tutto il mondo che la fervida fantasia degli
artigiani del settore che si tramandano questa arte da generazioni aggiunge scene e personaggi anche della attualità alle tradizionali figure presepiali.
#18
Stelvia(venerdì, 01 maggio 2015 12:36)
... questa Signora è l'innominata Giba ...
ecco forse adesso ho proprio rovinato l'atmosfera ... scusatemi :(
#17
Giba(venerdì, 01 maggio 2015 11:43)
Sconosciuta signora, oltre che alla sua innata signorilità a che sono dovuti i riguardi delicatissimi che il refrain di Antonio le sta offrendo? Mah, attenzione: l'occasione fa l'uomo.....rattusello
(voce in codice locale). Voce 'e notte........
#16
Antrefrain(venerdì, 01 maggio 2015 11:18)
Signò, acalate ‘o panaro che je dimane nun ce vengo. Era il grido che lanciava il venditore ambulante per annunciare il suo arrivo, E je ogge me traveste pe’ vuje da venditore ambulante. Spero
solamente che apprezzerete overamente che fatico pe’ vuje pure ‘o juorne ‘e festa pe’ ve purtà n’ata puntata della:
Cronaca di un itinerario turistico reale per un incontro vacanziero immaginario
Mentre Teresina, guidata con redini basse trotterella percorriamo a ritroso via Caracciolo e via Partenope, costeggiando il mare che abbiamo alla nostra destra.
Superata la rotonda Diaz vediamo venirci incontro il Borgo Marinari e Castel dell’Ovo.
Teresina, impettita e con la criniera al vento, percorre veloce via Acton ed in poco tempo ci porta al molo Beverello.
Chiedo al cocchiere di fermare e farci scendere all’altezza della Stazione Marittima perché voglio fare ammirare alla mia ospite Castel Nuovo-Maschio Angioino-, Piazza Municipio e le aiuole fiorite
che abbelliscono e contornano lo spazio antistante il Castello dove le coppie di novelli sposi vanno a farsi ritrarre in abiti nuziali sotto lo sguardo interessato di tutte le ragazzine che, avendo
marinato la scuola, vanno a trascorrervi qualche attimo di lieta spensieratezza col boyfrend.
Attraversata Piazza Municipio, e superato l’ex albergo Londra – quante ore ha trascorso lavorando all’uncinetto su uno di quei balconi che affacciano sulla piazza, Titina de Filippo quando era
impegnata in recite al vicino Teatro Mercadante – imbocchiamo via Medina. Giunti a Piazza Dante passiamo per Portalba, e dopo aver dato uno sguardo al Conservatorio di musica San Pietro a Maiella,
uno dei più famosi d’Italia, iniziamo la discesa di via Tribunali.
Guardo la mia ospite. Cerco sul suo viso, nei suoi occhi un segno che mostri una qualche sensazione, una emozione.
E’ ammirata, stupita, incredula. Lo spettacolo, per lei sicuramente nuovo, inusuale di tanta, troppa gente per le strade; il continuo vocio che si sente la cui intensità caratterizza le diverse
strade che attraversiamo; quel vivere la strada, per e con la strada, la continua, incessante, coinvolgente necessità di comunicare sempre e comunque, la attrae.
Mi accorgo anche degli evidenti segni di stanchezza che rendono urgente e necessaria una sosta per rinfrancare e fare riposare le stanche membra.
Appena dopo Piazza Miraglia, immediatamente dopo l’inizio di via Tribunali, c’è una antica pizzeria, La “Accademia della pizza” mio abituale rifugio nei primi due anni di Università dove ho bruciato,
in lieta compagnia, quasi tutti i soldi che ricavavo dalla vendita dei libri che mio padre, togliendosi, nel vero senso della parola, il pane di bocca, comprava. Era allora necessario ricorrere ai
testi della biblioteca di facoltà.
Entriamo. Mi accorgo, con grande meraviglia, che niente è cambiato. La sala è la stessa, non ampia ma accogliente ed i tavoli sono quasi tutti occupati da coppie di giovani studenti.
Interpello con lo sguardo la signora che, sorridendo mi sussurra: Perché no? Sarà bello anche per me ricordare quei tempi, rivivere l’atmosfera di goliardica spensieratezza e gustare finalmente
questa vostra tanto decantata pizza in un posto che si fregia dell’appellativo di accademia della pizza.
E, ragione che non posso più trascurare, ho proprio necessità di restare per qualche tempo seduta per dare riposo anche alle mie stanche estremità.
Restiamo nella pizzeria abbastanza tempo per dare modo alla signora di rinfrancarsi. Il tempo vola. Mentre gustiamo una ottima pizza ci scambiamo notizie che ci consentono una migliore e più
approfondita, reciproca conoscenza.
Salutati con grande cordialità dai gestori del locale, riprendiamo il nostro cammino.
Percorriamo ancora un tratto di via Tribunali sino a Piazza San Gaetano e scendiamo per San Gregorio Armeno, la strada dei pastori e dei presepi. Non vi è la folla del periodo natalizio ma
l’atmosfera che vi si respira è la stessa. Un luogo fuori del tempo. Ed è proprio in questo breve tratto di strada neanche troppo largo ed ormai famoso in tutto il mondo che la fervida fantasia degli
artigiani del settore che si tramandano questa arte da generazioni aggiunge scene e personaggi anche della attualità alle tradizionali figure presepiali.
#15
Sari(giovedì, 30 aprile 2015 19:41)
Ancora Refrain, ancora.
#14
Antrefrain(mercoledì, 29 aprile 2015 22:26)
Cara Stelvia. Non c'è alcuna ragione perchè tu debba scusarti.
Grato per l'apprezzamento che mostri per quanto da me scritto.
#13
stelvia(mercoledì, 29 aprile 2015 15:40)
Chiedo venia per non essermi accorta di tanta poesia caro Antrefrain.
"Un residuale strato di “ghiaccio” nordico si stava lentamente sciogliendo ai caldi raggi della napoletanità." ... ecco cosa può fare l'amore e la dolcezza di un posto incantato e di un cuore
generoso.
"Queste nordiche, queste abitanti del profondo nord, mi viene da pensare, queste mezze straniere sono capaci di un autocontrollo che per noi del sud è impossibile ed impensabile."... aggiungo anche:
in particolare quelle cresciute fra le montagne, così crude, schive e tanto sospettose ...
Quante persone mi hanno scambiata per olandese, forse l'altezza, gli occhi verdi, i capelli castano chiaro e un nome tipico tedesco "Claudia" e non la solita Anna, Maria, Lucia... Allora in quegli
anni mi vedevano così ...
... in così poche righe e già mi sono sentita a casa tua, fra i panorami incantati descritti da te dove il "tuo" mare ti ha cullato e la brezza marina ti ha baciato e sussurato l'amore della tua
terra.
Caro Giba, che dolce e triste lirica la tua frase: "orfano raccolto dai confini"...
#12
Sari(mercoledì, 29 aprile 2015 11:04)
Refrain è un pittor gentile e leggerlo procura ristoro.
#11
Giba(martedì, 28 aprile 2015 18:13)
Quanto amore per la tua terra, amico caro. Forse dovrei amarla di più io, che ne fui ospite privilegiato e coccolato. Certo, anche io la amo molto, ma il tuo amore è totale, assoluto, geloso. Tu ne
sei figlio, io solo un orfano raccolto dai confini. Grazie.
#10
Antrefrain(martedì, 28 aprile 2015 12:44)
Parcheggio la macchina nella zona riservata ai clienti dell’albergo e accompagno la signora alla reception.
Un facchino si occupa del bagaglio. Dopo averlo sistemato nell’ascensore si fa da parte per farla entrare. Non accompagno la signora. Voglio che sia da sola quando, affacciandosi si troverà di fronte
l’incanto della visione dell’intero golfo e potrà ammirare lo scenario della città beatamente e mollemente distesa ai piedi del suo simbolo più significativo, il Vesuvio e abbraccerà in un solo
sguardo la piccola e deliziosa Procida, la salubre ed affascinante Ischia ed infine la vera regina di questo lembo di terra che non ha eguali al mondo, la capricciosa,maliarda, intrigante Capri
sempre più avvolta nella sua aria di dolce mistero e accattivanti promesse.
L’indomani, verso metà mattina, passo a prenderla.
Mi faccio annunciare. L’attesa è breve. Dopo pochi minuti mi viene incontro uscendo dall’ascensore.
E’ già notevole il cambiamento che si nota in lei. Ha l’aria più distesa, è meno contratta. Mi dice di aver dormito poco ma bene. Si era dovuta costringere, ma solo a notte inoltrata, ad allontanarsi
dal balcone e porre termine alla vista di quello spettacolo che le donava un piacevole senso di bene.
Rivedere poi quello stesso spettacolo all’alba le aveva procurato un istintivo moto di correre incontro alla vita ed alle gioie che sa e può offrire.
Usciamo dall’albergo. Siamo su via Partenope.
Stamani Napoli è bellissima. Si presenta nella sua veste migliore.
L’aria è tersa. Il cielo è senza nuvole spazzate via dalla tramontana degli ultimi giorni. Il sole, piacevolmente tiepido, accarezza i nostri volti.
Chiedo alla mia ospite se gradisce fare una passeggiata. Accetta volentieri.
Ci spostiamo attraversando col verde e sulle strisce pedonali tra gli ammirati sguardi degli automobilisti maschi, la carreggiata per raggiungere il lungomare.
E’ contenta; si nota e risultano vani i suoi tentativi di creare una paratia stagno a separare a scopo difensivo questo suo istintivo e nuovo modo di provare emozioni e manifestarle.
Aspira con voluttà l’aria salubre; non stacca gli occhi da quell’incanto come se volesse imprimerlo profondamente nella mente per poterlo poi richiamare , rivedere e godere in tempi e luoghi diversi.
Resto in silenzio ad ammirare questa lenta e graduale sua metamorfosi, e, finalmente, vedo partecipare alla sinfonia di sensazioni che lentamente si sta impossessando di lei il suo sorriso ormai
franco e disteso ed anche ed ancora di più i suoi splendidi occhi verdi.
Lentamente, parlando di argomenti vari, costeggiamo il mare percorrendo via Caracciolo.
Giunti a Mergellina percorriamo la banchina che delimita il porticciolo ove sono agli ormeggi le barche della Napoli bene. Il lido “Mappatella” in questa stagione è chiuso.
Sostiamo per qualche minuto all’altezza del faro. Lasciamo che l’aria fresca e salubre, che ci porta l’odore del mare, invada le nostre narici e dia sollievo alle vie respiratorie regalandoci i suoi
benefici effetti mentre i gabbiani che affollano la scogliera pare vogliano salutarci con le loro stridule grida.
Improvvisamente ci rendiamo conto che è trascorso molto tempo. Ci accingiamo perciò a fare il percorso inverso .Mentre gustiamo un ottimo “espresso” ad uno degli chalet di Mergellina, fermo al volo
una carrozzella ed invito la mia ospite a salirvi.
Il cocchiere, premuroso, nel rimontare a cassetta abbassa la capote. Poi, parlando al cavallo, dice testualmente:”Jamme Teresììì, ma mi arraccomando, chianu chianu, doce doce come saje fa tu quanne
portiamo una coppietta. Si gira verso l’interno, ci guarda, sorride e poi rivolto al cavallo dice: Pure se je e te nun simme il cavallo e le parole che stevene dint’a canzone cantata dalla buonanima
di Edoardo Spadaro, facimme vedè a questi signori noi chi siamo, facimmele vedè che pure noi ci sappiamo fare”.
La mia ospite ascolta, poi pensa…….ricorda, sembra restare per qualche attimo interdetta…………mi guarda………..e finalmente scoppia in una gioiosa ed irrefrenabile risata.
Io che mi sono sempre emozionato dinanzi al lento, graduale, inarrestabile sciogliersi della neve alla ricomparsa del sole rendendo così possibile il rigoglioso, vittorioso ritorno della natura,
stavo assistendo al lento, graduale e liberatorio dischiudersi del cuore di una donna mentre riceveva ed accoglieva una sensazione nuova, di grande benessere.
Un residuale strato di “ghiaccio” nordico si stava lentamente sciogliendo ai caldi raggi della napoletanità.
#9
Giba(lunedì, 27 aprile 2015 15:09)
Grazie Antonio. Grazie davvero. :)))))))))))))
#8
Antrefrain(lunedì, 27 aprile 2015 15:05)
Aspettando Stelvia.
Riporto anche qui, anche se non è un ricordo, questo mio immaginario viaggio, per un omaggio a Napoli e Provincia perché chi la conosce per esserci vissuto o per averla visitata possa rinverdirne il
ricordo e perché chi ancora non ha avuto il bene di esserci stato, possa avere una pallida idea di cosa è e quali sensazioni offre questa stupenda terra.
Cronaca di un itinerario turistico reale per un incontro vacanziero immaginario.
Ed eccomi all’aereoporto di Capodichino ad attendere che l’aereo atterri.
Il giovanotto dall’aria sveglia che innalza il cartello “Hotel Vesuvio” è in
posizione strategica.
I fiori che offrirà all’ospite sono molto belli. La divisa è in perfetto ordine.
E’ tutta una mia invenzione. Di vero c’è solo la prenotazione dell’albergo.
Il resto serve a darmi qualche attimo di tempo per poterla vedere e…studiarla.
Ed ecco che l’avanguardia dei passeggeri in arrivo incomincia a sciamare verso la sala di attesa. Eccola. L’ho individuata. Si guarda attorno titubante e ansiosa, allo stesso modo di chi viene
assalito dal timore di non vedere realizzata una aspettativa.
Veste così come concordato perché potessi riconoscerla. Sotto il leggero soprabito porta una sciarpa di un bellissimo colore azzurro. I capelli, di un biondo castano tipicamente nordico, non corti ma
lunghi solo sino al collo, sono pettinati con la riga a sinistra e ondeggiano leggermente ritmati dall’andatura. I lineamenti sono affilati ma l’ovale è di un rotondo perfetto. Gli occhi sono verdi.
Quando si avvede del cartello ed ha certezza di aver individuato l’incaricato che la condurrà a chi la sta aspettando, il suo viso mostra evidenti segni di compiacimento, mentre un leggero sorriso le
increspa le labbra ed i suoi meravigliosi occhi verdi guardano ansiosi intorno in cerca di chi l’attende. Quando realizza che l’uomo che le sta andando incontro è Refrain, quando i nostri sguardi si
incrociano, riesce a non far trasparire alcuna sensazione. Con studiata calma mi viene incontro mantenendo inalterato il sorris che le illumina il viso..
Queste nordiche, queste abitanti del profondo nord, mi viene da pensare, queste mezze straniere sono capaci di un autocontrollo che per noi del sud è impossibile ed impensabile.
Cordiale stretta di mano, convenevoli. Chiedo notizie del viaggio mentre ci avviamo al parcheggio per ritirare la macchina con la quale l’accompagnerò in albergo. Sinora una sola cosa sembra averla
distratta e leggermente smossa dal suo apparente atteggiamento disincantato: la bellezza dei fiori con il loro intenso profumo che il baldo giovanotto le aveva porto a nome dell’albergo.
Una volta in macchina imbocco Viale Maddalena: percorro via S.Maria del Pianto e, giunti a Piazza Carlo Terzo, costeggio il palazzo Fuga – l’albergo dei poveri – Niente cambia sotto il sole. Anche
allora si preferiva non eliminare o alleviare la miseria ma ricoverare i poveri, indice certo della illuminata pietà del potente di turno L’opera era stata voluta da Carlo di Borbone nel 1751.
Decido di non girare a sinistra per non attraversare Corso Garibaldi, ma proseguo diritto. Costeggio l’Orto Botanico che, pur non essendo tra i più antici d’Italia è sicuramente il più importante per
la quantità e qualità delle varie specie di alberi e di fiori che vi si trovano. Percorro per quanto è lunga via Foria sino al Museo alla cui altezza giro a sinistra per scendere verso Piazza Dante.
Giunto a Piazza Carità percorro via Toledo che, purtroppo, non è più la bella ed elegante strada voluta dal vicerè Pedro de’ Toledo ai tempi della dominazione spagnola ma conserva, come una gran
dama, un suo particolare fascino. Alla fine di via Toledo si intravede Piazza Trieste e Trento e, prima ancora, la Galleria Umberto I. All’angolo di via Chiaia ammiriamo sulla sinistra l’ingresso
laterale, riservato agli artisti ed agli orchestrali, del teatro San Carlo e sulla destra il famoso caffè Gambrinus che fa da valletto e cerimoniere alla notissima Piazza del Plebiscito su cui
affaccia il Palazzo Reale.
Guardo la mia ospite. Niente lascia intuire quel che pensa o quel che prova al cospetto delle tante meraviglie della città. E’ solo cambiato, impercettibilmente, il sorriso .Non mi riesce di definire
tale cambiamento, non saprei come motivarlo.
Attraversata la piazza scendo per via Cesario Console. Attraverso poi via Santa Lucia, passo per il Chiatamone ed arrivo a Piazza Vittoria. Finalmente…………….il mare.
Stranamente non vi è traffico sul lungomare.
continua.
#7
Sari(lunedì, 06 aprile 2015 08:53)
Prendi coraggio, cara, in questo angolino nascosto leggono solo cuori discreti, attenti e rispettosi.
#6
Stelvia(venerdì, 03 aprile 2015 16:52)
anch'io sono qui con tanti ricordi ma senza l'ardire di metterli in riga ...
Forse prenderò coraggio.
#5
Sari(venerdì, 27 marzo 2015 10:09)
Ricorda molto chi ha molto cuore.
#4
Antrefrain(giovedì, 26 marzo 2015 16:07)
Grazie a te, Giuliano che mi permetti di rivivere momenti il cui ricordo non mi ha mai abbandonato e da cui, parlandone, ricevo la gioia di riviverli come se fossero attuali mentre è trascorsa una
vita intera.
#3
Giba(giovedì, 26 marzo 2015 15:53)
Cos'è un regalo?
Una rosa di tempo avvolta di tenerezza. Grazie Antonio.
#2
antrefrain(giovedì, 26 marzo 2015 15:29)
Mio padre era nato nel 1902. Prese moglie quando di anni ne aveva 24 ed a 32 aveva 5 figli. Era un artigiano del legno. Faceva le sporte, contenitori di legno di castagno lavorato delle seguenti
misure che andavano scrupolosamente rispettate perché dovevano essere impilate: Lunghezza m.1,20, larghezza cm.60, altezza m.1. Avevano due manici anch’essi di legno perché potessero essere
trasportate. Non mi dilungo sul procedimento per costruirle. Lo farò in altra occasione. Venivano utilizzate per il trasporto degli prodotti della terra . Il bacino di utenza era costituito dal
mercato ortofrutticolo di Napoli e dai tantissimi agricoltori delle ubertose terre dell’agro Nocerino- Sarnese. Materia prima era il legno di giovani piante di castagno che veniva cotto in un forno a
legna, diviso a strisce poi levigate e impiegate nella costruzione della sporta. Era buon uso all’epoca far nascere le attività artigianali in prossimità dei bacini di utenza e dove era possibile
reperire in loco la materia prima. In prossimità del paese c’è ancora un castagneto di proprietà comunale, il bosco di Arciano, che appunto forniva la materia prima indispensabile. Le sporte venivano
costruite nei mesi invernali per poter essere pronte per quelli estivi perché allora era maggiore la richiesta del mercato. Nei mesi estivi il lavoro si riduceva quasi a zero il che rendeva
necessario per far quadrare il bilancio familiare che ‘e spurtellare-cestai avessero una seconda occupazione. Mio padre era musicante, un componente di quei concerti bandistici che venivano
ingaggiati in occasione delle feste patronali per accompagnare le processione , e di sera, allietare la piazza con la esecuzione di brani di opere liriche. E’ stato grande merito di quelle esecuzioni
l’avere educato alla musica intere generazioni. Si faceva buona musica. C’era una spietata concorrenza fra i vari concerti bandistici che acquisivano ingaggi proprio in funzione della buona qualità
di esecuzione.
La vita scorreva, pur tra le inevitabili difficoltà e fatiche, serena e in buona pace. I figli erano diventati sei quando scoppiò la guerra. Mio padre fu esentato dal servizio militare perché due
suoi fratelli erano morti in guerra. Poi arrivarono gli Americani. Alle residue , già scarse possibilità di lavoro, era quasi scomparso quello estivo, perché per ovvie ragioni e per prudenza non si
aveva voglia di festeggiare, si aggiunse un motivo che cambiò radicalmente la vita della nostra famiglia e di tante altre. Gli Americani avevano portato qualcosa da mangiare ma anche la loro
tecnologia che nel caso specifico della attività di mio padre era costituita dalle cassette di legno. Quattro assicelle messe insieme e saldate con una spillatrice. Costo quasi zero. Fu la fine.
Dovemmo adattarci a vivere con i soli, scarsi proventi dell’attività di musicante. Fu allora giocoforza chiedere a chi poteva già farlo trovare lavoro nelle nuove attività e dare una mano. Toccò al
primo dei figli maschi che aveva quindici anni che si accompagnò al nonno paterno col quale ogni mattina presto col treno si recava a Napoli ove aveva trovato lavoro in una segheria. Erano trascorsi
diversi mesi durante i quali mio fratello e mio nonno tornavano a casa insieme e sempre alla stessa ora. Una sera di un maledetto giorno tornò da Napoli solo mio nonno. Mio fratello era stato
ricoverato in Ospedale perché il nastro di una sega elettrica, sganciatosi dalla guida, gli aveva reciso di netto tre dita della mano sinistra. Quella del ritorno di mio nonno in quella maledetta
sera non mi si è più tolto dalla mente ed ha condizionato, forse, tutta la mia vita.
#1
Giba(giovedì, 26 marzo 2015 11:50)
Agli autori principali di "Ricordi", Antonio, Sari, Marileti, dedico questa pagina, nata dalle rovine della precedente, con mio grande dispiacimento.
Prometto che metterò in memoria tutto, in modo che non si debba perdere nulla di quello che sarà scritto. Grazie.
Stelvia (giovedì, 14 settembre 2017 17:08)
Ciao Espero, un abbraccio :)
espero (mercoledì, 06 settembre 2017 10:38)
Egregio dott. xxxxx
Sarà perché è Natale, sarà perché io sono una sentimentale, sarà per tante altre cose che non so esprimere, ma io ho nostalgia del CREST . La vostra comunità di xxxxxx per me è oramai un luogo dell’anima , perché lì è passata mia figlia ed anche la mia relazione con lei, si è trovata nel frattempo a dover fare i conti con tante altre cose. Prima di tutto lì ho capito che altre persone oltre a noi genitori si sarebbero presi cura di lei , sollevandoci da un gravoso fardello, sebbene a momenti alterni. Mi spiace molto come sia finita e che mia figlia (ma forse anch’io) non abbia avuto la pazienza di rivedere i vantaggi del possibile rientro che il dott xxxx aveva in qualche modo fatto intendere. Ora quel fardello , per quanto mia figlia sia seguita e frequenti un centro diurno dove lavora come piastrellista, fresatrice e quant’altro, è tutte le sere sulle nostre spalle e continua ad aumentare di peso. Non so quando e come potremo equilibrare questa situazione che col tempo si sta facendo sempre più complessa. mia figlia compirà 26 anni ed oramai si sente esclusa da eventuali percorsi di studio ,di lavoro ed affettivi.
In ogni caso io vi ricordo con nostalgia , mi ripeto , la vostra casa, il vostro parco che ha accolto mia figlia nei momenti di serenità o di dolore, i compagni di terapia fra cui Serena , ……ed altri. Ora lei , xxxxxxxxx, partirà per la sua casa al sole della Campania. Conosco quei luoghi, le sabbie dorate il mare incredibilmente limpido (nel 1976) ; lì ho imparato a nuotare e ad amare il mare e la bellezza sfolgorante della natura di quei luoghi. Rivolga ad essi , uno sguardo dedicato a me.
Rivolgo a tutti componenti dello staff il mio ringraziamento personale per aver scoperto un luogo dove regna la tutela della dignità umana , della cura del più debole , dell’onestà e ………
Auguri a tutti Natale 2003
espero (mercoledì, 06 settembre 2017 09:54)
Ciò che segue è una nota scritta e letta da me di fronte a 200 persone , l'ultimo giorno di servizio come prof associato in facolta di medicina a pavia , prima di andare in pensione. E' una nota di commiato infarcita di nostalgia per non aver fatto di più.
Cari colleghi, non è un saluto accademico, né un curriculum vitae, perché non ho vissuto da accademica all’interno della nostra università. Forse ho sbagliato, forse ho sottostimato il ruolo che ho occupato, ma la mia natura mi porta a cercare rapporti di fiducia, di amicizia che superano la relazione accademica , senza togliere a quest’ultima nulla del suo valore di solidarietà, di competenza e di condivisione del sapere.
Mi ritiro volontariamente dal lavoro ( vado in pensione) perché ho consumato le energie e non mi sento più in grado di proporre e di programmare nulla che sia alla portata della professionalità richiesta ad un professore.
Da quando ho 23 anni , ho lavorato all’interno dell’area di insegnamento della Medicina del Lavoro. Ho iniziato con grande passione , perché molto c’era da fare e molto mi colpivano le situazioni di rischio gravoso in cui si trovavano i lavoratori , addetti a lavori di fabbrica , pesanti e pericolosi . E così era davvero.
Ora non è più così gravoso, non si muore di lavoro , salvo alcuni casi che la cronaca ci porta in primo piano; una legge , che è arrivata troppo tardi quando ormai molti danni si erano compiuti,( ma nel nostro paese si legifera quando ormai il danno è fatto), protegge adeguatamente la salute di tutti i lavoratori.
Ho sempre detto agli studenti che qualunque specialità avessero fatto, dovevano sapere prima di tutto che la persona che gli portava i suoi sintomi di malessere, lievi o gravi che fossero, era prima di tutto un lavoratore , per 8 ore al giorno, per 5 giorni la settimana , per una intera vita lavorativa.
E’ superfluo dire che mi dispiace lasciare una università e una facoltà così prestigiose , ma il prestigio lo fanno gli uomini che ci lavorano, ed io non ritengo di riuscire a sostenerlo per altro tempo ancora. Ho già affermato che ho lavorato con passione , ma problemi interni alla mia famiglia di provenienza e a quella che mi sono costruita a Pavia mi hanno impegnato moltissimo ed esaurita nelle risorse interiori ed intellettive , per lo meno al di sotto del livello cui penso debbano manifestarsi tale risorse affinchè possano essere trasmesse prima agli studenti e quindi alla società di cui diverranno artefici futuri.
Ringrazio tutti coloro che mi hanno stimata aiutandomi e forse, ma spero di no, anche sopportando il mio carattere e il mio modo di esprimermi e di agire facilmente fraintesi.Auguro una buona continuazione a tutti e credo che non dimenticherò mai nessuno,spero cioè che la memoria si fermi al ricordo e non prosegua verso la nostalgia e l’oblio,salute permettendo.
Io continuerò a guardare il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me, quali 2 punti di riferimento che non mi hanno mai abbandonato.
Elisabetta Crovato 31 gennaio 2007
marileti (mercoledì, 31 maggio 2017 21:45)
Ma no, Sarina, sono sempre stata Mariella!
Mara è il nome che mi identifica in alcuni racconti
Sari (mercoledì, 31 maggio 2017 09:52)
Marileti, forse ti chiamavano Mara un tempo? E a te piaceva più del tuo nome?
marileti (martedì, 30 maggio 2017 12:56)
SCARAMANZIA
I raggi del sole che filtrano tra le persiane mi fanno grande piacere: si preannunzia una bella giornata ed il mio vestito andrà benissimo.
Sono un'adolescente insicura e non avrei saputo cosa altro indossare se il tempo fosse stato cattivo.
Mi giro dall'altra parte per cercare di dormire ancora un poco. Ripenso alle numerose visite dal sarto. Per la prima volta mamma aveva optato per Franco Tornabuoni:«Me lo ha raccomandato la signora Lùcia e sai lei come è raffinata!»
Conoscevo solo donne sarte, ma l'uomo mi aveva subito messa a mio agio:«Ora le faccio vedere qualche modello adatto a lei, signorina.»
Meno male, avevo temuto che mi facesse vedere i figurini già mostrati a mamma!
Era tornato con un fascio di modelli e ne aveva scartati alcuni, poi mi aveva mostrato i prescelti. Con gli occhi sgranati avevo ammirato delicate siluette con gonne pieghettate, a ruota, dritte. Gli scolli a barchetta, a pizzo, rotondi. Le maniche a giro, a tre quarti, lunghe.
«Mi piacciono tutti, mi consigli lei, per favore.»
«Per lei vedrei adatto questo, ma in chiffon.» Si allontana e torna con una pezza di chiffon a delicati ramage celesti. «Con i suoi colori starà benissimo. Il modello, inoltre la farà sembrare più magra.»
Mamma irrompe nella stanza: «Alzati, pigrona. Tra poco don Carlo l'autista ci farà citofonare e dovremo scendere!»
Corro a fare colazione e in fretta mi vado a lavare. Lo specchio del bagno mi mostra che il lavoro del parrucchiere è uscito indenne dalla nottata. Gli mando un bacio. Torno in camera e indosso il vestito. Il trillo del citofono mi fa calzare in modo veloce le scarpe. Afferro la borsetta e sono pronta.
Mentre ci dirigiamo verso Castellammare di Stabia, papà ci parla della cerimonia alla quale stiamo per assistere:«Il varo di una nave è un momento importante perché l'armatore e quanti hanno lavorato alla realizzazione dello scafo, vedranno se la loro opera è stata fatta a regola d'arte.»
Mio fratello Federico: «Sì, se la nave galleggia, vero? Ma perché c'è una madrina? Mica è una cresima.»
«Il varo viene anche detto battesimo perché alla nave viene imposto il nome come ad un neonato. Invece dell'acqua benedetta si usa una bottiglia di champagne.»
All'arrivo al cantiere vedo tante persone che non conosco: gli uomini sono tutti in giacca e cravatta come papà, le signore in abiti eleganti e con il cappello come mamma. Tutti quei cappelli sono un campionario di buon gusto o stravaganza. Sull'impalcatura torreggia la nave ed ai suoi piedi, in tuta, le maestranze.
Si aspetta un poco l'arrivo del cardinale che benedirà la nave in ricordo dell'epoca in cui la tecnologia non era molto sviluppata e andare per mare non era molto sicuro.
Un applauso saluta la madrina (la moglie dell'armatore) e la cerimonia ha inizio: benedizione del prelato, lancio della bottiglia e la nave scende con lentezza mentre tutti trattengono il fiato, arriva in mare. Grida di gioia ne salutano il galleggiamento.
Ritorniamo in macchina per dirigerci verso un albergo sul lungomare nel quale verrà offerto un buffet.
«Federico,Mara, vedrete come tutti si lanceranno sul buffet, voi state accanto a noi. Prenderete qualcosa in un secondo tempo, dopo che la ressa si sarà diradata.»
Ammiro il grande salone con la lunga vetrata prospiciente il mare. Camerieri in giacca bianca ci offrono degli aperitivi che, logicamente, non accetto.
Papà si fa incontro ad un anziano signore: «Senatore, le voglio presentare mia figlia Mara.»
Rossa per l'imbarazzo stringo la mano dell'uomo:«Piacere.»
«Che bella signorina, Antonio. Mi dica, signorina Mara, quanti anni ha?»
Con un filo di voce:«Diciassette.»
Mi guarda con espressione inorridita. Le sue mani ripiegano il medio e l'anulare e ne uniscono le punte.
«Non si dice così, signorina. NO. Si dice sedici bis!»
FINE
marileti (sabato, 27 maggio 2017 19:20)
Caro Antfrain leggo solo ora il tuo ricordo su tuo nipote e sull'orto. Invidio molto la possibilità che ti ha dato il destino di passare ad altri il testimone e spiega ad Antonio piccolo come si ottengono splendidi risultati parlando alle piante in modo che noi trasferiamo a loro anidride carbonica ricevendone ossigeno
Sari (domenica, 21 maggio 2017 17:00)
15 Febbraio del 1961. Quel giorno ci fu un'eclissi totale di sole visibile in tutta Italia, la scuola concesse per l'occasione la mattinata libera e le insegnanti non persero l'occasione per impartirci una straordinaria lezione di geografia e ci diedero appuntamento su una collinetta in periferia dove i palazzi non avrebbero disturbato l'evento.
Le amiche ed io andammo senza capire pienamente in cosa consistesse per davvero quel fenomeno però il giorno precedente avevamo affumicato alcuni vetrini che avrebbero fatto da filtro fra i nostri occhi e il sole che quel giorno ci avrebbe stupite con le stramberie.
Ci presentammo tutte all'appuntamento e attraverso il vetro affumicato osservammo il sole che, fettina dopo fettina, scompariva lasciandoci entusiaste e preoccupate.
Le tante persone che come noi ammiravano lo spettacolo celeste, commentavano col naso all' insù la luce del sole che sbiadiva e pareva portarsi via anche le voci che s'erano fatte via via più flebili fino a zittire.
A sole era scomparso, l'aria s'era fatta fredda e le amiche ed io eravamo un poco spaventate temendo che non tornasse e che quell'innaturale buio sarebbe restato per sempre. Anche i cani erano preoccupati, tanto che cominciarono ad abbaiare e lo erano anche i galletti che si misero innaturalmente a cantare. Tutto quel fare insolito accrebbe il timore per qualcosa di tremendo che sarebbe certamente accaduto ma poi il sole cominciò il suo percorso inverso e, quando riapparve, tutti noi tirammo un liberatorio sospiro di sollievo... mancò poco che gli si facesse un applauso.
A quel tempo (e sembra preistoria) nessuno di noi aveva la macchina fotografica e ci dovemmo accontentare, a ricordo, delle foto scattate dalle insegnanti che però rimasero, con nostro dispiacere, alla scuola.
Dimenticai quel fatto e tutte le emozioni che aveva provocate fino al giorno in cui mio figlio, ancora bambino ma già appassionato di astronomia, ne riparlò disegnandone tutte le fasi. Assieme a lui, e per la prima volta, assaporai tutto quel che avevo visto e provato in diretta, tanti anni prima.
Sari (martedì, 16 maggio 2017)
Quanto amore costruttivo in questo nonno che dà e riceve con uguale e amorevole intensità.
E' bello leggere queste storie, riconciliano col mondo.
Antrefrain (martedì, 16 maggio 2017 21:03)
Era felice di occuparsi della raccolta. Recando la cesta in cui l’aveva riposta si precipitava, fiero, dalla nonna per mostrarle i risultati del suo lavoro. L’entusiasmo ingigantiva e lo possedeva. Imparò, guardando me che me ne occupavo, a sradicare le ortiche facendo attenzione a non toccare la parte urticante. Volle sapere l’uso che ne avremmo fatto e le modalità di impiego del liquido di risulta dopo bollitura. A pranzo riferivamo alla nonna i continui progressi di Antonio. Era lui stesso che la intratteneva su quanto quel giorno ci aveva interessati e tenuti occupati. Frattanto gli anni passavano e Antonio cresceva sano e robusto. Fra il ragazzo che frequentava già le ultime classi delle elementari ed il nonno si instaurò un clima di scambio di notizie e impressioni. Antonio raccontava del suo buon profitto a scuola e dei rapporti con la signora Maestra e gli altri ragazzi. Io, sempre attento a seguirne la crescita e la formazione, non perdevo occasione di portargli qualche buono esempio e di inserire nei nostri frequenti dialoghi, a scopo didattico, notizie e racconti. Antonio andava anche a lezione di inglese da sua zia, la sorella del padre. In quei giorni andavo a prenderlo a scuola e veniva a pranzo da me. Dopo pranzo, a piedi, lo accompagnavo da mia figlia. A pranzo ci divertivamo da matti. Prendevamo in giro la nonna facendole ogni tipo di scherzo. Dicevamo che quanto aveva preparato quel giorno era buono ma non quanto quello che la madre gli preparava . In tali occasioni la nonna tirava su col naso parecchie volte. In altre occasioni trasferivo, di nascosto, dal mio al suo piatto parte del cibo. Antonio, che frattanto aveva già divorato la sua parte, si adoperava perché la nonna notasse il cibo nel piatto e le diceva che non gli era piaciuto. Ma quando la nonna che non si era accorta della manovra, o facendo finta di non esserne accorta, se ne rammaricava, le buttava le braccia al collo e la copriva di baci. Erano momenti di gioia e di vera, semplice felicità. Sono passati gli anni. Antonio, come ho già detto, ne ha molti di più. I nostri incontri si sono diradati. Altre attività, come è giusto che sia, lo impegnano. Viene occasionalmente, quando può, ad aiutarmi nel lavoro nell’orto. Il tempo che può dedicarvi si assottiglia sempre di più Va ancora a lezione di inglese dalla zia. Lo accompagna ora la madre, in macchina. Cambio di mezzo di locomozione. A me resta la grande gioia di averlo aiutato a costruire la “sporta” che dovrà aiutarlo, perché possa riporveli, sia i successi che le inevitabili delusioni che la vita propone.
Antrefrain (martedì, 16 maggio 2017 21:01)
Il mio primo nipote ha quasi dodici anni. Si chiama Antonio. Frequenta la 2^ media. Quando venne ad annunciarmene la nascita mio figlio, abbracciandomi, mi disse:” E’nato Antonio.T’aggie mise ‘a supponta”(ti ho procurato il sostegno). Per esorcizzare la commozione gli sussurrai:” Te sì vulute assicurà ‘na porzione maggiore d’eredità “. Scoppiammo in una liberatoria, sonora risata. Era il suo primo figlio; era nato il mio primo nipote. Fin dalla prima infanzia Antonio ha trascorso molto del suo tempo a casa mia. Passavamo diverse ore insieme, in quello che io chiamo l’orto. E’ una parte del giardino, annesso alla casa. E’ il mio abituale rifugio. Dopo aspre lotte, ho sottoscritto con mia moglie un patto di non belligeranza. Nel trattato che lo regolamenta è stato chiaramente specificato che, per i due terzi assegnati a lei e destinati a giardino, non avrei avuto diritto di interferire o proporre soluzioni. Alla stessa non interferenza si impegnava lei per la parte restante che mi era stata assegnata e che avrei destinata ad orto. Antonio aveva poco più di quattro anni quando pretese di essere coinvolto nella gestione del mio pezzo di terra. Gliene assegnai una porzione; comprai, appositamente per lui, una zappa ed altri arnesi atti alla bisogna. Fu però necessario superare gli ostacoli che sua madre frapponeva. Ricorremmo a dei sotterfugi ma non desistemmo. Il ragazzo, in poco tempo e molta fatica, imparò a rassodare e livellare il terreno. Gli insegnai quando e come seminare legumi e, a tempo debito, mettere a dimora verdure e altri ortaggi. Attendeva e gradiva incoraggiamenti e complimenti per l’opera che tanta fatica gli costava e per i risultati che raggiungeva. Ne era avido. Era raggiante quando li avvertiva sinceri. Accompagnato dal padre, arrivava a casa mia nelle ore più impensate per controllare se la semina aveva avuto successo. A volte rimaneva a fissare a lungo i primi germogli. Al mio chiedergli la ragione di quell’attesa, mi guardava con il suoi maliziosi occhietti e pazientemente me ne spiegava la ragione. Voleva accertare di quanto fossero cresciute le piantine dall’ultima sua ispezione. Sperava, e lo diceva con convinzione, di cogliere l’esatto istante in cui si allungavano. Era uno spettacolo vederlo così interessato. Curava personalmente l’innaffiatura. Fece tesoro di quanto gli andavo spiegando circa la necessità di scegliere fra i concimi quelli che avrebbero favorito la crescita e la salute delle piantine senza alterarne la natura o forzarne il ritmo biologico. Ebbe modo di accertare che tali accorgimenti garantivano un buon risultato.
Antrefrain (lunedì, 08 maggio 2017 09:45)
Mi rivedo in quel trenino,
piccolo, assonnato e dolorante.
Mentre il rumore del treno sulle rotaie cullava il mio dormire
Risento la voce di mio padre
che mi dice dove siamo, cosa vede. Descrive fornendomi ogni particolare
Lo risento ancora dirmi, mentre attraversiamo la città dove siamo arrivati
Cosa sono quelle voci che io sento e
che non vedo e i rumori del tramvai
che prendiamo per raggiungere l’ospedale per
la cura del malanno che mi affligge.
Sento fra le mani il calore di qualcosa
che ha un profumo delizioso ed un sapore ma i provato.
Quasi avverto,
dal suo respiro accelerato, la
pena che sta provando assistendo al breve piacere che suo figlio infermo
sta godendo. Poi mi asciuga la bocca e
il viso e mi chiede come mi sento. Alzo gli occhi e non lo vedo, non posso. Gli sorrido e la stretta è più forte e caldissima è la sua mano
Stelvia (domenica, 23 aprile 2017 09:57)
Che meraviglia Antonio il tuo "urlo" d'amore per la tua amatissima compagna. Quanta poesia nelle tue parole e quanto è fortunato quel colletto della tua camicia, quelle mani e quel sorriso che si fondono con le tue e con l'amore reciproco che vi accompagna da sempre e che oggi ha il sapore ancora più intenso che vi unisce e suggella in un abbraccio di amorevole e grande affetto.
Antrefrain (sabato, 22 aprile 2017 15:54)
Il nostro incontro fu dovuto al caso.
Tu eri con un altro, un tuo parente. Io ero reduce da una missione senza seguito. Eri visibilmente annoiata a quella festa quando inatteso io vi arrivai. Ero a rimorchio di un tuo cugino che ti avrebbe accompagnata a casa. Ti guardai. Ci vedemmo. Ti chiesi di ballare, accettasti. Lo facemmo per l’intera serata, sino a chiusura della festa. Il tempo era volato. Tornai a casa con voi, con la vostra macchina. Ci salutammo, presente tuo cugino, senza dire una parola, con una calda stretta di mano. Capimmo che ci saremmo rivisti. Quando accadde, alcuni giorni dopo, mi dicesti che di giorni, lunghi, lenti da trascorrere, ne erano passati troppi. Non sono troppi i tantissimi anni che da quel giorno sono trascorsi e che ci hanno visti spesso e ancora ci vedono mano nella mano. Abbiamo sorriso e pianto insieme e ancora sorridiamo e piangiamo insieme e alla stesso modo di sempre. Ora, mentre io sono dietro questo schermo e ti scrivo, tu sei di là e, riattaccando un bottone al colletto della mia camicia, ancora sorridi pensando, poi me lo dirai, a quanto sia fortunato quel colletto.
marileti (mercoledì, 21 dicembre 2016 20:29)
bello trovare i ricordi di GIULIANO
Vaco (lunedì, 10 ottobre 2016 13:47)
a GIBA
un carissimo saluto.
ottavio
Mariolieto (giovedì, 17 marzo 2016 17:43)
GIULIANO carissimo, sempre bello e confortante leggerti con quella tua visione della "tua" realtà - che è poi la realtà di tante altre persone - nella quale si evidenziano, ovviamente, le manchevolezze ed i limiti (a volte, e spesso, colpevoli). La mia visione personale - da uomo davvero più che fortunato - forse mi porta spesso a soffermarmi particolarmente solo su ciò che mi è stato concesso, senza inoltrarmi in quelle difficoltà nelle quali si trovano tanti concittadini e non solo nel campo della sanità. Dai benèfici ambienti ospedalieri che mi hanno ospitato, posso davvero comprendere quale sia la differenza (sofferta) se mi fossi trovato anch'io in ambienti non idonei come quelli che ti hanno accolto costì: sono soprattutto gli ospedali ben organizzati e gli ospedali male organizzai che segnano una delle maggiori negative differenze del nostro contesto sociale, nonostante la fortunata presenza di medici all'altezza del loro difficile compito.
Ti auguro ogni bene e che anche tu possa trovare conforto in strutture sempre meglio organizzate. Sarà possible? Chissà.
Per questo pomeriggio-sera tante belle cose dalla già alle porte... primavera!
Giba (giovedì, 17 marzo 2016 11:29)
Nessun problema, Sari. Nessuno, Mario; ti sarai riferito a qualcosa che scrissi sul mio ricovero per un incidente, al pronto soccorso di un ospedale a Napoli, un mese fa. Infatti da allora non ci siamo sentiti, se non per avvisare, su Parliamone, che avevo pubblicato i tuoi ricordi. I fatti son fatti: tu sei stato curato e coccolato in un ambiente settico e decente, io sono stato curato da ottimi medici, ricucito da ottimi chirurghi, assistito da pochi infermieri gentilissimi in una caverna con letto senza cuscini, testata senza pulsante per chiamare aiuto, bagno a 20 metri di distanza e impraticabile, al gelo il corridoio e rovente la stanza. Il tutto in un reparto di chirurgia d'urgenza senza ombra di asepsi e con gli infissi che si spalancavano al vento. No, caro governo italiano, i napoletani non c'entrano, i medici non possono ristrutturare l'orrore ambientale. Sono scappato con la testa fasciata all'alba, dopo una notte di incubo. Forse, se fosse capitato a te, saresti convinto che non tutto è idilliaco in questa enorme città. Altrove, sempre a Napoli, ho trovato strutture meno indecenti, sempre senza cuscini per il letto, sempre con ottimi medici. Mah, sai, certe cose mi fanno diventare leggermente critico su questa "Regione Campania" che dei suoi pazienti se ne frega.
Sari (giovedì, 17 marzo 2016 09:18)
Giba, i tuoi amici napoletani sanno di te e non possono avere equivocato.
Pensieri pubblici, pensieri privati.. che interessante argomento.
Mariolieto (mercoledì, 16 marzo 2016 23:06)
Più che carissimo - e sempre attento - GIULIANO!
Non era mia intenzione menomare od infirmare i tuoi "giudizi veritieri" su Napoli; pensavo solo di scambiarci poche parole fra noi del forum. Penso che il mio "sfarfugliare" su Napoli ed i Napoletani non esca dalla cerchia di amiche e di amici che ci conosciamo bene. Se pensassi che il mio dire possa avere un pubblico molto più vasto, starei molto attento a scrivere liberamente tutto quello che penso: sono convinto che il nostro conversare resti fra le amiche e gli amici del forum, in tutto serenità.
Buona notte e buona giornata per domani.
Giba (mercoledì, 16 marzo 2016)
Bene, Mario. Ora i miei amici napoletani saranno convinti che io non mi sua limitato a dirti che la Napoli di oggi non è più quella di allora e che, come tutta l'Italia, è diversa, peggiorata con gli anni. Strano che tu non ci abbia pensato. Pazienza e buona notte.
Matioleto (mercoledì, 16 marzo 2016 21:34)
Gratificato dalle parole di VASCO e di MARILETI... ritorno giornalmente a quella "mia Napoli" - della quale GIBA mi ha segnalato limiti ed anche eventuali buchi neri - ma che a me ha donato soltanto il "bello" il "vero" ed il "bene": nessun graffio, nessun sgarbo e nessuno che i abbia "fatto fesso". Tutto il male che ho sentito su Napoli non mi ha mai sfiorato, ed è per questo che io parlo sempre e solo della "mia Napoli", quella che mi ha accolto e mi ha letteralmente "salvato" come persona. Sono passato per i vicoli, anche di notte, ma ho solo sentito il profumo della "povertà vissuta onorata"; sono stato al porto degli anni Cinquanta e vi ho solo trovato persone che ce la dovevamo mettere tutta per dar da mangiare ai propri figli. Tutti, anche allora, parlavano della malavita napoletana, ma non mi ha mai sfiorato; per cui il mio senso di "esaltazione per Napoli" (tanto che al mio paese mi davano del "Napoletano"!) so che intimamente è solo mia, ma in me è reale e vissuta
e nessuno da me ha mai sentito parlar male dei Napoletani e dei Meridionali: per me resta una terra sofferente e disagiata ma esemplare, che ha forgiato negli abitanti meridionali veraci una esemplarità di vita che dovrebbe essere studiata e fatta propria da tanti altri italiani.
Grazie a VOI delle vostre benevole considerazioni: mi restano care, vicine al calore del cuore, nel quale "Napoli tutta è sempre viva".
marileti (lunedì, 14 marzo 2016 18:24)
Caro Mario, ti ho letto di un fiato. Quanta solitudine e quanta forza hai dimostrato! A proposito della gratitudine per Napoli cui fai cenno, mi è tornata in mente una frase riportata da Roberto Saviano con riferimento non ricordo a quale personaggio venuto a Napoli per il Gran Tour:
"Il golfo di Napoli è come una grande padella dove la vita frigge"
vaco (lunedì, 14 marzo 2016 15:12)
Spinto dalla lamentela di marileti, ho verificato se è tutto OK in RICORDI-
A MARILETI : TUTTO OK, almeno a me!
CIAO!
ottavio
vaco (domenica, 13 marzo 2016 19:05)
AL CARO MARIO ANTOLINI.
HO LETTO TUTTO IL TUO VIVERE A NAPOLI, E IN QUELLE CONDIZIONI DA TE EGREGIAMENTE RACCONTATE!
IO SONO MOLTO IGNORANTE! CON AMMIRAZIONE, DOPO LA LETTURA DEL TUO PREGRESSO, MI SON DETTO, E TUTTO SODDISFATTO DI TE: "PER ASPERA AD ASTRA!"
CHE PERSONA CHE SEI!!!!!!!!!!!
A PARTE LA COLTURA (MOLTA!) HAI QUALCOSA CHE TI RENDE INEGUAGLIABILE, IN TUTTI I SENSI!
IO, VENENDO DALLE SAITTELLE, TI HO SEMPRE CAPITO, PER MIA FORTUNA. IL TUO CURRICULUM MI E' STATO SUFFICIENTE ABBONDANDEMENTE PER CAPIRE LA TUA PERSONA.
PER ME E' UN GRANDE ONORE, QUELLO DI AVERTI CONOSCIUTO. TI RINGRAZIO DELLA TUA AMICIZIA, E DELLA RICCHEZZA MORALE REGALATAMI.
STAMMI BENE! ottavio
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:18)
All’Orientale a Napoli
Ottobre 1949: con l’attestato magistrale in borsa partenza per Napoli, con un sacco di illusioni, poiché non mi ero ancora reso conto cosa volesse dire vivere nel contesto sociale. Ero ancora imbevuto della vita collegiale, per cui non sapevo vedere gli ostacoli, non temevo il peggio, viaggiavo ancora con la testa fra le nuvole credendo che bastasse andare avanti, anche se col paraocchi sugli occhi. Di questo me ne ho dovuto rendere conto molto dopo, ed amie spese; ancora oggi sto chiedendomi come, in molte occasioni, mi sono fidato troppo di tutto e di tutti, rischiando grosso in situazioni in cui avrei potuto rimanere vittima dell’imprevisto ma prevedibile, se ne avessi avuto l’accortezza. Tuttavia, se fossi stato preso dalla paura, credo che sarei andato in pensione coma semplice tipografo e, magari, neppure sposato.
Comunque… eccomi in viaggio per Napoli. Ancora aria di fine guerra: pure le ferrovie risentivano del periodo della ricostruzione, per cui per raggiunger Napoli con un solo treno non potevo servirmi che del direttissimo Monaco-Reggio Calabria che faceva fermata anche a Trento. Vi salivo alle 21 di sera e giungevo a Napoli alle 15 del giorno successivo, magari anche sempre e solo in piedi o seduto sulla valigia, poiché sempre strapieno degli emigranti che in quel periodo facevano la spola dal Meridione alla Germania. In quel periodo la validità del biglietto ferroviario era rapportata alla lunghezza del percorso, per cui il mio biglietto valeva parecchi giorni. Questo particolare mi ha dato modo di fermarmi, sia all’andata che al ritorno, parecchie volte a Firenze ed a Roma; in questa maniera ho potuto visitare non solo le due città manche tanti monumenti e luoghi d’arte, accrescendo conoscenze che non avevo avuto mai acquisito prima - infatti in Giappone si meravigliavano che non conoscessi le opere d’arte toscane e romane - e che altrimenti non avrei più avuto occasione di conoscere adeguatamente in seguito.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:17)
Arrivo ed insediamento nella metropoli partenopea della quale non conoscevo un bel niente e neppure mi ero preoccupato di sapere qualcosa. Quindi, da ignaro “polentone” (così mi chiameranno sempre i miei amici meridionali) mi fermo nei dintorni della stazione ferroviaria, perché era ormai pomeriggio inoltrato e pensavo di recarmi ad iscrivermi all’Università il mattino seguente. Prendo un stanza in un alberguccio di pochi soldi nei vicoli delle vicinanze della stazione e giro un po’ nelle vie circostanti immergendomi in un trambusto cittadino che assolutamente non conoscevo. Solo più tardi venni a sapere che si trattava di uno dei rioni alquanto malfamati e pericolosi, in cui girare da solo, e dal quale era meglio starsene lontani. Ma ormai era fatta e, fortunatamente, non subii danno alcuno.
Il mattino successivo all’Università: segreteria, iscrizione rendendomi conto dei non sempre facili rapporti con la burocrazia università: ero davvero come un pulcino fuori dell’acqua, ma certamente presuntuoso e, forse, troppo sicuro di me. Quindi il primo approccio con i bidelli, che sono la chiave di volta dell’Università; averli dalla tua - almeno a Napoli e allora - era sentirsi al sicuro; ed io ebbi la fortuna che il bidello della sezione Orientale era un anzianotto che aveva fatto, da giovanotto, la prima guerra mondiale proprio sulle montagne venete; quindi immediatamente in sintonia. Ma si pensi che, in quel periodo, il fermarsi a parlare con i bidelli era considerato quasi un “abbassarsi”, poiché anche i bidelli erano obbligati a chiamare gli studenti “dottore” ed a trattarli coi guanti. Il mio bidello mi sollecitò a non fermarmi ed a sedermi a parlare con lui, poiché dovevo farmi da lui rispettare; una situazione che per me - ormai avevo trent’anni ed all’Università ero considerato un “nonno” - fu un quasi un invito a nozze: mi sedetti subito con lui a chiacchierare, rievocando i suoi giorni di guerra nel Veneto; e così, durante i quattro anni che sono stato a Napoli, tutti i giorni mi sedevo a stare con lui e nessuno ebbe mai a dire nulla. Un semplice particolare, ma cominciavo a sentirmi all’Università e quasi ad impadronirmene. Il primo passo era fatto ed una nuova porta era ormai definitivamente spalancata davanti.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:16)
Il passo successivo fu la presentazione in Facoltà, la conoscenza dei compagni di studio, l’avvicinarsi ai professori. I frequentanti la facoltà del settore Orientale erano solo poche decine, mentre quelli delle lingue occidentali erano a migliaia, ma tutti nello stesso edificio, pur nelle diverse ali. Durante le lezioni noi dell’orientale eravamo completamente staccati ed isolati; ma quando non eravamo in aula, eravamo liberi di muoverci e ci trovavamo quasi sempre con gli altri studenti, per la maggior parte signorinelle ventenni. Infatti le studentesse erano numerose, e provenivano da tutta Italia, dato che l’Orientale accettava l’iscrizione anche col solo diploma magistrale e non con l’obbligatorio diploma di liceo come per tutte le altre università.
Fra i primi compagni avvicinati mi trovai con un giovane abruzzese iscritto anche lui per la laurea in giapponese; appena seppe che ero stato in Giappone e parlavo giapponese, mi prese subito in particolare simpatia e mi offrì di andare a condividere con lui la camera che aveva in affitto; io ero ancora senza stanza e ne approfittai. Nella stessa giornata mi portò con sé in via Rione Sirignano, verso Fuorigrotta, lungo via Caracciolo, nella parte più signorile di Napoli. Fu come trovarmi in un altro mondo: in quella parte della città, infatti, si sente tutta la bellezza del golfo ed a quei tempi era una zona tranquilla senza schiamazzi ed affollamenti per le strade. Ed eccomi al quarto piano di un palazzo signorile (i proprietari erano degli aristocratici, mi pare Conti), quasi nel sottotetto, in un’abitazione di tre stanze con una arzilla vecchietta, che mi accolse a braccia aperte e mi mise a disposizione il secondo letto che si trovava nella stanza già occupata da Derio, il mio compagno. Ci trattava come suoi nipoti, sempre amabile, ma giustamente severa nel doverci comportare con educazione e correttezza.
Non so se resta ancora con la sua specifica caratteristica “la camera degli studenti universitari”. Allora, in una città universitaria come Napoli, erano tutte stanze affittate da privati nella loro stessa abitazione (e con essi si coabitava), e la si trovava attraverso i compagni d’università. Non so neppure se allora esistesse una particolare istituzione messa a favore ed a disposizione degli universitari. La camera mi costava undicimila lire: più della metà delle ventimila lire che avevo a disposizione ogni mese. Ne cambiai quattro: due in Rione Sirignano, una al Vomero (che dovevo raggiungere con la funicolare) ed una al centro di Napoli a monte di Spaccanapoli. Camere modeste; un letto, un tavolino ed i vestiti e la biancheria più sulle sedie che negli armadi; tutto in disordine, agli occhi delle nostre mamme; però ogni cosa era trovabile al suo posto. Vita un tantino da zingari; ogni volta in situazioni diverse: prima da solo con Derio, e poi al Vomero in famiglia di un mio compagno di facoltà che voleva lezioni di giapponese; poi con altri tre compagni calabresi nella quarta stanza; invece assolutamente più tranquilla la stanza (la seconda) al quarto piano sempre del Rione Sirignano, in un diverso palazzo, ma presso una famiglia accogliente e partecipe, specie quando fui da solo nell’anno in cui stesi la tesi di laurea, con quasi tutte le notti passati in bianco, grazie alle pillole di “simpamina”.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:15)
Vita di facoltà. Soldi sempre pochi, ma con la paura di chiedere prestiti, anche in famiglia. I periodi più lunghi li passai al Rione Sirignano, ma nella impossibilità di usufruire del tram n. 3 che proveniva da Margellina ed andava alla stazione ferroviaria, con sosta sul Viale Umberto, vicino all’Università. Andavo all’Orientale a piedi lungo il percorso: Riviera di Chiaia, Via Chiaia, Piazza Trieste e Trento, spesso attraversavo la Galleria Umberto I,poi penso per via Toledo o altre viuzze interne, quindi Piazza del Gesù, via Benedetto Croce e Palazzo Giusso: sede universitaria. Credo che impiegassi più di mezzora tutti i giorni, andata e ritorno. Per i pasti andavo generalmente alla mensa universitaria, che credo sia stata normale e sufficiente anche in quegli anni Cinquanta, perché non ne ho tristi ricordi; qualche volta andavo ad un piccolo ristorante, in un vicolo di Corso Umberto, alla mensa con operai e impiegati e poca spesa. Per tutti i quattro anni a cena solo un quartino di latte e 250 grammi del buon e saporito pane di Napoli. Fortunatamente non ha mai patito né la fame e né la sete: una caratteristica che ho avuto da sempre ed anche oggi mi è confortante compagna ed i pasti non sono una preoccupazione: basta poco cibo, di qualsiasi specie, e niente verdura e niente frutta; quindi libero al massimo e, grazie a Qualcuno, sempre in salute.
In quegli anni gli studenti, maschi e femmine, dell’università che frequentavo, erano per lo più non napoletani e venivano da tutte le regioni d’Italia; avevo parecchi amici anche del settentrione. Questa particolarità faceva sì che, non avendo casa e la camera in affitto non era sempre confortevole ed usufruibile al di là del dormirvi, l’università era diventata la nostra casa: vi giungevamo al mattino e tornavamo a casa nel tardo pomeriggio dopo ore di lezione, di studio, di biblioteca, di chiacchiere, di discussione, di scambio di idee e di informazioni e con “uscite” in compagnia verso qualche cinema, qualche teatro, qualche mostra, qualche altro avvenimento culturale. E fu così che ho imparato ad apprezzare l’università “vissuta”, poiché mi sono reso conto l’università non è fatta di sole lezioni e di apprendimenti libreschi, ma di qualcosa di molto di più; per cui anche alle mie nipoti ad a tanti altri studenti suggerisco sempre di iscriversi ad università lontane da casa per non aver l’occasione di trovarsi vicini alla proprio abitazione con la possibilità di andate e ritorno o giornaliere o settimanali. Vivere l’università vuol dire non solo assistere alle lezioni, ma confrontarsi con i propri compagni di facoltà ed anche con gli altri compagni delle altre facoltà; vuol dire poter andare ad ascoltare lezioni anche di argomenti diversi da quelli necessari per la propria laurea; vuol dire sentire la città universitaria che ti attornia e che è pregna di secoli di storia e di iniziative culturali da poter assaporare e fare proprie.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:14)
Per me è stato così. Venendo dal Trentino ogni periodo di frequenza universitaria voleva dire rimanere a Napoli alcuni mesi senza possibilità di ritorni in famiglia. Perciò anche lunghe giornate da solo; le ore serali, in attesa della cessazione del chiasso in strada per studiare in silenzio, passate alla “Villa” (ampi giardini lungo Via Caracciolo) a giocare a clipper od a passeggiare lungo il viale che lambiva il golfo dalle mille luci. Poi in città ore passate a Spaccanapoli e giù fino a Forcella in mezzo a quella vivacissima vita napoletana, nella quale solo al passarvi hai tanto da imparare e da portare a casa in ricchezza di vita sociale. E le serate al porto, con qualche compagno, fra le truppe americane, composte di tanti negri, e con i quelle persone emarginate dalla “buona società” e considerati bassifondi, e fra le quali, invece, specie io che venivo da ben altre esperienze, ho trovato tanta umanità vera che mi fatto capire di che cosa realmente fosse fatta la società.
E tutto questo insieme di vita frammentata e diversificata è stato indubbiamente il fondamentale apporto di Napoli alla mia “resurrezione”: l’essere vissuto da me solo e solo come me, senza che nessuno sapesse chi fossi e che cosa avessi alle spalle. Sarà stata un’esperienza anche sofferta, ma magnifica, entusiasmante e gratificante. Forse in quelle giornate avrò anche bestemmiato; avrò pensato anche di prendere una nave e scappare come hanno fatto alcuni miei giovani compagni in quei turbolenti (interiormente parlando e non solo) giorni. Avrò certamente vissuto ansie e crisi indicibili, ma che ho dovuto superare da solo e dalle quali sono riuscito ad uscirne certamente cambiato e migliorato: ma non so ancora spiegarmi il come; tuttavia, se oggi sono qui a 95 anni a ricordarlo, vuol dire che qualcosa di fondamentale per la mia esistenza, veramente Napoli me lo ha saputo generosamente e gratuitamente regalare.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:13)
La cronaca dei tre anni, ciascuno a se stante, non la trovo in nessuno dei miei scritti; quindi non ne sarei capace di stenderla. Ricordo l’alternarsi dei 49 esami (in libretto), poiché nelle quattro lingue da studiare (giapponese, cinese, russo e inglese) ogni esame scritto era a se stante: voto per la traduzione dal, voto per la traduzione in, e voto per l’orale. Le materie complementari erano parecchie, ma del tutto estranee all’Estremo Oriente. Siccome non vi erano a disposizione esperti dell’Estremo Oriente ho dovuto studiare l’etnografia africana con il professore di settore (antipatico e presuntuoso), e per la storia dell’oriente ho dovuto impegnarmi sulla “storia dell’India” con un professore che veniva da Roma solo per me: ne concordavamo periodicamente le date di frequenza tra noi due. Gli “esami sciocchi”, che non avevano nulla a che fare col giapponese e con l’estremo oriente, erano parecchi e li facevamo solo con informazioni superficiali e per forza; ma in cultura tutto fa brodo; nulla va perduto e tutto arricchisce. Per lo studio del cinese, negli ultimi due anni, ebbi un padre francescano che veniva dalla Cina; entrammo subito in sintonia, quasi in amicizia. Mi dava lezioni da solo al vicino Concento di Santa Chiara, nel magnifico giardino, di cui soltanto successivamente mi resi conto della sua peculiarità artistica.
Né dimenticherò Pompei per due specifici aspetti. Alla Madonna di Pompei era assai devoto mio padre - e conseguentemente poi tutta la mia famiglia - poiché in occasione del periodo in cui Mamma Maria era stata ammalata, il papà si era recato a Pompei a chiedere la grazia della sua guarigione alla Madonna del Rosario; tornato a Tione ebbe la notizia che la Mamma sarebbe stata rilasciata guarita dalla clinica. Con quel ricordo in cuore, specie prima degli esami più importanti, mi alzavo alle cinque, col treno delle sei della Circumvesuviana andavo a Messa al Santuario e per le nove era in Università per le lezioni o per gli esami. Altro particolare per gli scavi di Pompei; all’Orientale venivano di frequente vari stranieri a chiedere qualcuno che sapesse la loro lingua per essere accompagnati ai famosi scavi; la felice occasione l’ebbi anch’io e così, a spese degli altri, visitai più volte quei luoghi archeologici ricchi di storia e di arte.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:12)
E venne il momento della tesi. Tutti gli anni, per risparmiare, facevo comperare i testi d’università a qualche mio compagno, promettendo di restituirgli con il riassunto e gli appunti scritti. Perciò era ormai mia abitudine passare le notti chino sui libri ed a scrivere - naturalmente a mano perché non avevamo a disposizione la macchina dattilografica - pagine e pagine di “appunti”, che poi spiegavo e davo ai miei compagni nei quotidiani ritrovi pomeridiani in università. Così fu per la tesi; d’accordo col professore concordammo su una tesi di storia giapponese: “L’era Meiji”, ossia il passaggio del Giappone dalla sua plurisecolare chiusura al mondo in assoluta autonomia, alla sua apertura al mondo occidentale, sotto la prepotente imposizione degli Americani all’ombra delle loro potenti navi da guerra. Purtroppo non avevo a disposizione testi italiani sull’argomento, per cui dovetti consultare parecchi testi in francese ed in inglese, con ore ed ore chiuso nella biblioteca dell’università, e cercando di avvalermi delle lezioni di francese nei tre anni di Milano, e quelle di inglese nei tre anni di Ivrea, più le sporadiche sperimentazioni in Giappone a fine guerra. Nei mesi che tornavo a casa battéi la tesi tutta a macchina, sulla vecchia Reghminton nell’ufficio di papà, in sei copie di carta riso e rilegata a regola d’arte da mio fratello Dino. Quando ne ebbi preparato la prima stesura la sottomisi al giudizio del mio professore di giapponese, il quale mi disse la stesura aveva più della forma giornalistica che della forma specifica della storiografia; mi invitò, quindi, a ricomporla per l’anno successivo che me l’avrebbe valutata scolasticamente molto di più. Ma io non potevo permettermi un altro anno a Napoli, per cui cortesemente gli chiesi di accettarla come era, che mi sarei accontentato della conseguente valutazione minore; accettò la mia richiesta, per cui feci tutto il lavoro di cui sopra, aggiungendo a mano, su ognuna delle sei copie, tutti i nomi giapponesi scritti obbligatoriamente con i caratteri cinesi classici.
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:11)
Il giorno della discussione ero a letto con 39° di febbre. Naturalmente nessuno di famiglia era potuto venire fino a Napoli per l’occasione. La padrona di casa indifferente; i miei due compagni di stanza erano di altra facoltà e la mia laurea non li interessava. Per cui mi presentai, con gli altri laureandi, e affrontai con calma la discussione e la breve conversazione in Giapponese. Vista la media alta del libretto, mi diedero un 103 che per me voleva dire poter andare a casa e presentare, a mio padre, suo figlio “dottore”: l’unica grande e vera soddisfazione/gratificazione dell’aver raggiunto il dottorato, poiché per i laureati in giapponese non vi era alcuna possibilità di intraprendere qualsiasi lavoro. Dopo la laurea - festeggiata dai miei colleghi altrove e senza la mia presenza – io di corsa a letto con altri due giorni di degenza; quindi il treno ed il definitivo rientro a casa, ricevuto semplicemente alla stazione autocorriere da mio padre, con il suo normale quasi silenzioso ma cordiale saluto e il caffè al bar, e poi a casa nella normalità di sempre, e senza il pranzo o la festa di laurea. In casa Antolini non si diede mai segni di particolare esuberanza, in festeggiamenti o regali, ai successi dello studio: studiare era soltanto era un comune dovere e doveva essere normale che si conseguissero i risultati del caso, senza bisogno di altri riconoscimenti. Da buon laureato, la mattina seguente al mio arrivo da Napoli, il ritorno in tipografia con la sorpresa di una “telara” nuova, come se nulla fosse avvenuto. Come ricordato in antecedenza, la laurea riuscii a festeggiarla unicamente offrendo la cena agli amici de “La Boidóra”all’osteria “Le Porte” di Cìmego, rimasta caratterizzata dal manifesto dipinto da Bruno Ballìn con la bomba atomica che lanciava da una parte la veste talare verso il cielo ed il corpo del Mario dall’altra parte verso la terra.
Università di Napoli con la laura in giapponese: un inutile sforzo di studio ai fini professionali; soltanto il “saldo” fra me e mio padre: l’anello di congiunzione fra passato e futuro, ristabilendo un equilibrio spezzato e rimasto in silenzioso bilico per lunghi sei anni: maggio 1947, ottobre 1953!
Mariolieto (domenica, 13 marzo 2016 11:10)
Napoli. - Napoli per me ha voluto dire che cosa voglia dire essere “te stesso” e come tu ti debba scegliere modi di pensare, comportamenti con te e con gli altri, ed ancora modi di vita che il collegio non può trasmetterti. La vita di collegio ti forgia dal punto di vista culturale ed anche formativo e professionale, ma ti impedisce di vivere i condizionamenti familiari e soprattutto ti priva di percepire la società che si trasforma, la società in cui gli uomini lavorano e combattono, la società in cui ciascuno deve porsi nei confronti degli altri con le proprie forze, con le proprie capacità, seppur con i propri limiti, dei quali ci si deve rendere conto. L’essere passato dalla vita religiosa alla vita di lavoro in tipografia era già stato un grande primo passo; ma avevo bisogno di essere lasciato solo con me stesso per riuscire a comprendere di che pasta fossi fatto e che di che cosa fossi capace di fare senza l’aiuto, l’appoggio ed il sostegno degli altri. E per me Napoli ha costituito, appunto, questo punto di verifica; una verifica che affrontavo senza saper come e che ho dovuto passo dopo passo quasi assalire nel corso delle circostanze che si accavallavano impreviste ed improvvise e che dovevo attaccare con le sole mie forze. Credo davvero che quella sia stata una vera “lotta per la vita”, dalla quale ne sono uscito rafforzato e pronto ad accettare ciò che la provvidenza voleva da me: il maestro ed il marito-padre. Per questo, se il Giappone rimane un’esperienza ineguagliabile, Napoli invece rimane l’insostituibile crogiuolo, in cui il metallo fuso di me stesso ha potuto rendersi l’essenza della mia attuale identità di uomo. E con tutto questo, anche ciò che Napoli mi ha insegnato nel modo di accettare e di vivere il presente, con quella duttilità di comportamenti che impreziosiscono i napoletani veraci. E la città, il mare, i monumenti, il Vesuvio, Pompei: ed il “sapore” di Napoli che- se lo sai percepire ed assaporare - ti resta dentro e te lo porti con te per sempre. Fui orgoglioso di essere stato battezzato dai miei compaesani “napoletano” quando esaltavo i napoletani ed il loro saper vivere, gioiosamente soffrendo, qualsiasi circostanza della quotidianità. Il mio “grazie” a Napoli rimarrà imperituro.
vaco (giovedì, 31 dicembre 2015 12:31)
CARO ANTONIO (RISANATO!!!!!!) AUGURONI IN TUTTI I SENSI
ottavio
Antrefrain (sabato, 26 settembre 2015 20:33)
Caro Giuliano, amico mio carissimo è vero. Mi fanno risentire la canzone napoletana Tiempe belle 'e 'na vota.' tiempe belli addò state, vuje c'avite lassate.................
Giba (sabato, 26 settembre 2015 12:09)
Perché ho l'impressione che Capri ti richiami alla memoria gli anni, così vicini, della gioventù dorata? Perché Antonio?
Antrefrain (sabato, 26 settembre 2015 11:42)
Qualche tempo dopo
Avvertì una mano che la scuoteva leggermente nel tentativo di svegliarla. Le giunse la voce della figlia che l’avvertiva che alla radio stavano dando un programma di canzoni napoletane che lei tanto amava. Mentre lottava con Morfeo che voleva ancora tenerla fra le sue accoglienti braccia, la voce di Guido Lembo, quella voce inconfondibile e leggermente rauca stava cantando: Si stu ciore torna a maggio…..
Si alzò, improvvisamente sveglia, dalla poltrona. Dalla finestra vide che aveva ripreso a nevicare e che i fiocchi avevano ormai ricamato, sino a coprirlo, una candida coltre sul verde prato.
Era stato un sogno?
Era forse un dolce, piacevole ricordo?
Forse era stato, forse, solo il ripetersi di un sogno indimenticabile ma mai vissuto.
Antrefrain (sabato, 26 settembre 2015 11:39)
L’aereo è decollato da alcuni minuti. Lei, seduta nella poltrona accanto all’oblò, si obbliga a non guardare in basso. Non riesce ad accettare l’idea che sia tutto finito, che sta vivendo l’atto finale di questa incredibile e meravigliosa esperienza. Non vuole convincersi, se dovesse guardare il mare che l’aereo sta sorvolando, che sta lasciando quella terra e che da domani ne sarà lontano.
La pervade un sentimento di dolorosa tristezza perché avverte che già le manca qualcosa. Unica consolazione è la consapevolezza che quando lo vorrà o ne sentirà più struggente il bisogno, potrà aprire lo scrigno ove ha riposto il prezioso ricordo delle tante ore liete vissute e dei tanti momenti trascorsi in compagnia di Andrea.
Andrea……Quel nome ha il potere di evocare il ricordo di quanto sia stato gradevole il tempo trascorso in sua compagnia in quei posti incantevoli e quanto affetto e dedizione le ha dedicato in quei giorni.
Ed allora lascia che i ricordi le inondino la mente lasciando liberi i pensieri di riandare alle ultime ore trascorse sull’isola dell’amore.
Il sorgere del sole li aveva trovati ancora sul Belvedere Cannone. E d’incanto quel luogo che nei secoli aveva ospitato angosciosi silenzi, fu testimone di una esplosione di felicità. Andrea si era girato verso di lei, l’aveva fissata intensamente e lei non aveva voluto distogliere lo sguardo. Dolce e calda la sua mano le aveva sfiorato il viso con una tenera carezza. L’aveva attirata a se. Mai abbraccio fu più tenero, più appassionato, meno disperato, più intenso, più completo. I loro corpi si cercarono, si ebbero in un abbandono totale che li consegnava ad un piacere che era cresciuto in loro ed a cui non sapevano e non volevano più opporsi. Lei aveva offerto agli sguardi dell’uomo il suo corpo ancora giovane perché vi frugasse e ne facesse vibrare ogni più riposto desiderio, felice finalmente di poter sentire, assaporare, godere quel cocente raggio di sole che tanto aveva sognato. E quando un fuoco ardente le bruciò l’anima strinse con violenza sul suo seno quel viso che tanto le donava.
Esausti e felici, senza avere la forza e la voglia di staccarsi, attesero il nascere del giorno e l’avanzare delle ore guardando la immensa distesa di mare che aveva cullato il loro sogno e le barche di pescatori che cariche di fatica e di scarsa resa ridavano alle donne in attesa i loro uomini.
Era ormai giorno inoltrato quando, a malincuore, presero coscienza di dover tornare alla realtà. Lungo la strada comprarono cornetti caldi ad un forno già aperto. Li mangiarono seduti ad uno dei tavolini di un bar della Piazzetta ancora deserta. Gustarono un buon caffè al chiosco nei pressi della funicolare. Giunsero appena in tempo al porto. L’aliscafo era pronto per la partenza. Durante la traversata non si allontanarono neppure per un solo attimo l’uno dall’altro. Restarono muti a guardare il solco d’acqua che la prua aveva aperto e che richiudendosi pareva ritmare e rappresentare la brevità del percorso che ancora restava da compiere e lo scorrere inesorabile del tempo che ancora era loro permesso di vivere insieme. Lentamente, come il risveglio dopo un sogno indimenticabile, quel naturale ricomporsi delle acque segnava il definitivo allontanarsi dall’isola che aveva loro donata attimi di felicità.
Di tutto quanto avvenne dopo ricordava solamente la veloce corsa all’albergo per ritirare i bagagli e quella in macchina per giungere in tempo all’aeroporto. Rivedeva ancora la infinità di saluti che si erano scambiati quasi ad esorcizzare il dolore ed a tentare di allontanare per quanto possibile il momento del distacco. Le era rimasto impresso il timido, quasi impacciato saluto intriso di malinconia. che aveva rivolto ad Andrea dalla scaletta dell’aereo.
Antrefrain (sabato, 26 settembre 2015 10:38)
Cara Marileti.
Il tuo essere scrittrice vera ti ha consentito di individuare il punto lacunoso del mio scritto. Hai perfettamente ragione. Un altro o altri personaggi avrebbero reso più agile e forse anche più interessante il racconto. Vorrei però precisare che il mio non è racconto ma unicamente qualcosa di etereo, immaginario, un sogno descritto mentre si attraversano e ammirano gli stupendi paesaggi e località della nostra amata terra che fanno da cornice. Quanto dico è rilevabile di più e meglio dalla ultima puntata con la quale assegno definitivamente un posto fra i sogni alla vicenda. Grato per avermi letto.
marileti (giovedì, 24 settembre 2015 11:15)
Caro Antonio, dai commenti in parliamone, avrai capito che ti ho letto e aspetto il seguito. Se posso darti un consiglio, fa intervenire una terza persona, così tutto sarà più vivace.
Antrefrain (martedì, 22 settembre 2015 14:15)
Rieccomi.
Prima dello stretto cunicolo che immette nella grotta veniamo trasbordati in una barchetta con soli due posti disponibili oltre il vogatore che, appena dentro declama:
Jamme, nennèlla mia, già la varchetta è pronta
Stu core è n’allegria, te dice viene, viè……
E dint’a grotta azzurra haje da venì cu mme!
Vide, tra li campagne, Meta, Sorrento e Vico…….
De Massa li muntagne sfilene ‘nnanze a te.
E dint’a Grotta Azzurra t’abbracciarraje cu mme.
Mo ca te tengo a lato, ‘ncopp’a sta varca mia
Pare che mo so’ nato lu cielo pe’ gudè…….
Jamme a la Grotta Azzurra voglie murì cu tte.
Guido Lembo è, attualmente, il vero imperatore di Capri. La sua taverna “Anema e core” è tappa obbligata per chi, a partire dalla tarda serata, desidera trascorrere ore in allegria ed ascoltare le più belle canzoni napoletane.
Guido, che mi conosce, ci accoglie con cordialità e si intrattiene qualche minuto con noi. Restiamo alcune ore ascoltando canzoni e partecipando ai cori che Guido organizza e dirige. Mi stupisce grandemente la gioia della mia amica che mostra non solo gradimento ma è completamente immersa nella atmosfera di gioiosa spensieratezza che le melodie e la voce e la chitarra di Guido sanno creare. Accenna persino ad un principio di esibizione canora in napoletano ridendo sino alle lacrime, per la sua prima esibizione in dialetto napoletano. Guido nota la scena, le sorride ed in omaggio e riconoscimento della sua bravura e voglia di partecipare,, le dedica “Era de’ maggio”. Con evidente piacere e mostrando l’immensa gioia che quella dedica le procura, ascolta quella antica canzone e, alla fine, pare persino commuoversi.
E’ quasi l’alba quando lasciamo il locale. Nessuno dei due mostra segni di essere stanco. Non ci riesce, non vogliamo porre fine al girovagare. La notte è nostra.
Le propongo di assistere allo spuntare dell’alba dal belvedere Cannone. Accetta con entusiasmo.
marileti (giovedì, 17 settembre 2015 12:42)
Antonio latita e Ottavio ci riporta al sabato fascista.
vacoepressa (sabato, 12 settembre 2015 11:06)
Al risveglio mattutino mi è venuto in mente:"Il sabato fascista"
Si tratta di un episodio di circa 80 anni fa. Tensione in mamma e papà. Avevano bussato alla porta i carabinieri, chiedevano di mio fratello Giovanni: e perché non si era presentato all'adunata del sabato fascista. Seguì un discorso poco piacevole, che si concluse al momento per mio fratello di circa due anni più grande di me, con l'andata in caserma. Il balilla moschettiere Giovanni non aveva rispettato la Legge.
Cosa da ridere o piangere?
Riflettete!
ottavio
vacoepressa (giovedì, 10 settembre 2015 15:50)
Antrefrain,
carissimo amico. Innanzitutto come procede la riabilitazione? Poi vorrei dire una cosa, e già da alcuni giorni. Scrissi di quando al Liceo Cuoco, noi studenti scioperammo. La sorpresa è stata che, per caso da me non voluto, sono stato citato come aver scritto anche io qualcosa di importante. Diverso è il tuo racconto della visita (direi:guidata fatta da te). C'è una didderenza enorme da come tu scrivi, da grande "penna", e me che sono terra terra.
Un carissimo saluto, ottavio
vacoepressa (sabato, 05 settembre 2015 13:52)
CHE AMICHE E CHE AMICI CHE HO. SIETE TUTTI MERAVIGLIOSI!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
marileti (giovedì, 27 agosto 2015 11:25)
A me non fa piangere i ricordi, io ero al posto della signora a prendere il vento in faccia e a bearmi dell'azzurro del mare che si confonde col cielo.
P.S. mi è piaciuto molto il riferimento alle Santa Rosa
Giba (giovedì, 27 agosto 2015 10:47)
Mo' pure tu credi che non leggiamo quello che scrivete? :))))))))))) Bella immagine, fa piangere i miei ricordi!
Antrefrain (martedì, 25 agosto 2015 14:58)
A Conca dei Marini non troverete caseggiati enormi o palazzoni tipo alveari. Solo case sparse nel verde. Il bianco la fa da padrone; è il colore dominante. Tutte hanno la classica loggetta e la scala esterna e si specchiano in un mare azzurro “denso come metallo fuso”.
Il silenzio è interrotto solamente dal cinguettio degli uccelli e dal rumore del battito delle ali dei gabbiani.
Quando ci fermiamo in un bar per qualche attimo di riposo e rinfrescarci gustiamo una vera leccornia. E’ qui infatti che è stata inventata dalle monache di clausura del locale monastero la sfogliatella Santa Rosa che si differenzia dalla sfogliatella riccia normale perché è di proporzioni maggiori e, alla normale imbottitura alla crema, viene aggiunto un misto di frutta fresca a pezzetti completata con una o più amarene sciroppate.
E’ ormai pomeriggio inoltrato quando facciamo ritorno a Sorrento. Lascio la macchina in un garage. Poi, a bordo di un aliscafo veloce ci imbarchiamo per Capri.
Dopo pochi minuti siamo all’altezza delle “bocche di Capri”, un tratto di mare scoperto che divide la estrema punta della costa dall’isola..
La mia amica, che è sempre rimasta a poppa dell’imbarcazione, preferisce restarvi incurante che in quel tratto scoperto il mare sia mosso. E’ felice di sentire sul viso gocce salate portate dagli spruzzi di salsedine strappati al mare dalle folate di vento che le scompigliano la bionda chioma e le imporporano il viso.. Aggrappata al passamano di ottone sembra voler sfidare il vento che con prepotenza vorrebbe ricacciarla all’interno e impedirle di ammirare e godere la stupenda bellezza della costa che si allontana e l’incommensurabile spettacolo offerto dall’isola che sembra correrle incontro offrendosi a chi arriva.. E’ contenta e mostra una felicità da far pensare ad una studentessa in gita scolastica. Il suo viso è meno tirato, più disteso, il sorriso più aperto quasi radioso ed il suo sguardo irradia gioia e calore. E’ bella, come lo è la libertà, di quella beltà che nessun condizionamento può minimamente offuscare. E’ l’immagine della libertà di essere se stessi.
Appena sbarcati ci avviamo verso la funicolare. In prossimità del pontile dove sono ormeggiate le barche che portano i turisti alla grotta azzurra, incontro l’amico Natalino che, nonostante l’età avanzata continua ad essere al suo posto di comando della flottiglia di imbarcazioni. Abbracciandomi col calore di sempre mi dice: !sumigliate sempe cchiù alla buonanime di vostro fratello(Non mi chiede della signora che è con me. La legge sulla privacy a Capri viene rispettata sin dai tempi di Tiberio).
Ordina ai suoi di riservare due posti sul “gozzo” in partenza per la grotta azzurra. Raccomanda al timoniere di fornirci ogni assistenza. Mentre ritorna ad occuparsi dei suoi affari mi saluta dicendomi:”Ce vedimme cchiù tarde e salutammo pure ll’amici. La mia amica sorride. Ha capito quasi niente di quanto Natalino ha detto ma intuisce l’atmosfera di amicizia di antica data che mi lega a quell’uomo.
marileti (sabato, 22 agosto 2015 11:46)
Ho percorso molte volte Forcella per andare a Pietro Collettadove prendevo un filobus e me la ricordo brulicante e chiassosa, oggi non so. In quella strada sentii per la prima volta la parola femminiello della quale il significato mi fu chiaro solo molti anni dopo. Grazie a te sono tornata in quella baraoda, ma la signora avrà la testa come un pallone e i piedi... dopo le scale di Positano aggiunte al resto del percorso a piedi.