La marachella

 

Me ne stavo seduto su una scomoda sedia di metallo, i gomiti appoggiati alle ginocchia, chino obbligatoriamente in avanti. Le manette mi costringevano i polsi a una innaturale immobilità. Al di là della scrivania il Giudice taceva. Una scrivania stranamente sgombra da ogni carta, con un solo enorme telefono al centro, fra me e il volto barbuto del Giudice. Vestiva di nero ma, a spiccare sulla camicia di seta rosa era una cravatta rosso fiamma.

 

Improvvisamente parlò, senza alzare il capo: “Leggo, nella sua pratica, che lei si auto accusa di aver ammazzato sua nonna. Mi risulta che è stata trovata alla base della scalinata interna di casa sua, col collo spezzato. Dica.”

 

Sbuffai. Era la decima volta che raccontavo alle guardie prima, all'ufficiale comandante poi, la storia del mio delitto. “Veda, signore, ero annoiato e quella sera in televisione trasmettevano una di quelle telenovelas berlusconiane che fanno impazzire, non si capisce perché, le vecchie signore. Avevo deciso, per amor di pace, di leggere il giornale mentre trasmettevano quella pizza, ma neppure questo bastò alla nonna. Mi disse che il fruscio delle pagine le dava fastidio.

 

Signor Giudice, io alla nonna volevo bene e dopo la morte dei miei genitori me l'ero portata in casa e la accudivo, portandola con la sedia a rotelle ovunque volesse, in bagno, in cucina, a letto. Provvedevo a lavarla e a spogliarla per metterla a letto, la rivestivo al risveglio, la curavo. Ho fatto questo per anni.”

 

Il Giudice mi guardava con aria perplessa: “Visto che le voleva bene, quale è stata la causa che ha scatenato la sua rabbia?” “Rabbia, no signore, nessuna rabbia. Veda, trovava sempre la minestra troppo salata, la carne troppo cotta, la doccia troppo fredda, il caffè troppo dolce. Niente le andava bene. Io sono un tipo taciturno e lei parlava, parlava, parlava in continuazione accusandomi di tutte le imperfezioni delle quali, secondo lei, ero colpevole.

 

Quella sera chiusi il giornale e con calma decisi quello che “DOVEVO” fare. Lasciai che la tremenda telenovela finisse e poi le dissi che avevo una sorpresa per lei. Mi rispose con uno sguardo sprezzante e io presi la carrozzina, la portai sul ballatoio e la scaraventai giù dalle scale. Non si mosse più,” L'inquisitore mi fissava, serio e composto. Attesi a lungo che dicesse qualcosa, poi, con voce piana, sussurrò: “ Quello che lei non sa, amico mio, perché lo ha cancellato dalla mente, è che subito dopo il fatto fu preso da un rimorso terribile che le fece quasi smarrire la ragione, Quella notte ebbe un infarto e morì. Quella in cui lei si trova è l'anticamera dell'inferno. Sappia che il mio nome è Duvel, sono il diavolo e devo decidere della sua sorte.”

 

Si alzò e mi venne vicino. Sentii il suo alito caldo mentre si chinava a togliermi le manette. Scorsi nei suoi occhi un baluginio, come di fiamme.

“La mia sentenza, disse, è decisa. Lei non sarà mio ospite, la spedisco in paradiso dove troverà alloggio. Quanto alla morte della nonnina, mi creda, giudico quello che ha fatto poco più che una marachella”.

 

Uscì dalla stanza aprendo una porta dietro la quale sembrava fosse scoppiato un incendio e io mi trovai fuori. Ero seduto su una nuvola rosa.

 

 

Giba

 

 


Predatori

 

Era stanco. Così finì di mangiare e uscì di casa, guardandosi attorno. Quando usciva era sempre molto cauto. Da sempre sua madre gli aveva insegnato che il mondo è pieno di gente malevola, gente pronta a farti del male anche se ti comporti in modo assolutamente legittimo, in modo naturale. Così usciva di casa solo per procurarsi il cibo, poi si infrattava di nuovo nella sua dimora, al sicuro. Limitava anche i rumori, per paura di ricevere visite indesiderate. Usciva solo la sera, qualche volta. Al buio era più a suo agio, camminava fra le piante del bosco che circondava il suo paese, sfiorando quasi il terreno per non far rumore.
C'era la luna, le stelle riempivano il cielo. Alzò il volto e respirò l'aria della notte con voluttà. Sentiva profumi che gli giungevano dagli alberi, dalle case colme di gente, sentiva perfino l'odore acre del sudore sugli operai che tornavano dal lavoro.
Se ne stava tranquillo, i suoi passi non facevano rumore, gli aghi di pino che tappezzavano il sottobosco erano morbidi e rendevano agile il cammino.
Improvvisamente udì un rumore lieve e gli giunse un odore di fumo di sigaretta. Intravide un lume fra le piante e due persone di mezz'età che imbracciavano due doppiette. "Vedrai, diceva il primo, vedrai Charles che prenderemo quel maledetto, basta avere costanza" e l'altro,"Sono due anni che lo ripeti ma non c'è verso di prenderlo, neppure di vederlo".
Lui si ritirò con grande prudenza, ripercorrendo i suoi passi. Pensò che di sicuro qualcuno doveva averla fatta grossa, per far infuriare così i suoi compaesani e preferì, memore delle raccomandazioni materne, tornare nel suo rifugio.
Scostò, arrivato a casa, le fronde che nascondevano l'ingresso ed entrò nella vasta caverna dove viveva. Si scrollò di dosso l'umidità della notte e, da un angolo sassoso dove lo aveva messo a frollare, addentò i resti della cena. Gli era tornata fame.
Mentre consumava il polpaccio della gamba che aveva staccato dal corpo della donna che giaceva poco distante ricordò la sua voce, quando, andando a caccia, la incontrò fra gli alberi: "Madonnaaa, il lupo mannaro!". Sorrise, la carne era morbida e gustosa.

 

 

Giba

 

 

 


Metafisica 

 

 

Fu di mattina che la Notte decise. Non sarebbe andata a dormire: per la prima volta voleva vedere le cose alla luce del giorno ed attese. 

 

Il Giorno si levò dal suo letto di nubi, come al solito e fece dei fiori, fiori. Illuminò di riflessi il dorso delle foglie d'ulivo e le argentò, scosse dal letto i dormienti chiamandoli alla vita. 

 

Ma la notte non dormiva e scurì il tutto in un attimo, senza volerlo. Ne venne

un chiaroscuro strano, né giorno né notte e la gente lo prese per maltempo. Non lo era ed i fiori si chinarono, gli ulivi smisero di dar sull'argento e la gente che si levò per andare al lavoro lo fece di malavoglia. 

 

I tram tennero per tutto il giorno le luci accese ed il sole apparve sbiadito e piccolo, come nelle albe invernali del nord Europa. Lassù, naturalmente, fu il buio totale. 

 

Quando arrivò la sera il giorno decise per ripicca di non dormire ed il buio non venne. Si rimase sospesi fra notte e giorno, ad attendere. 

 

Non ne vennero mai a capo. Per questo siamo sospesi fra la luce ed il buo, senza sapere come finirà. Forse la Notte ed il Giorno capiranno che ad ognuno compete il suo posto, che ci si deve accontentare. Forse capiranno che l'intransigenza non serve e che ci si deve sempre accordare. 

 

Faccia Buio la notte e chiaro il Giorno, come ordina l'andare delle cose. Sia fatto in fretta o i fiori morranno e finirà la vita sulla terra. Non giova a nessuno il voler la ragione per forza, neppure ai litiganti, che resteranno svegli a guardarsi per sempre, soffrendo senza scopo. 

 

 

 

Giba

08 Mar, 2008

 

 


 

Il fabbricante di doni

 

  

Fabbricava regali. Raccoglieva nel bosco, vicino alla vecchissima casarella che gli era rimasta dopo la partenza dei suoi per un punto imprecisato del tempo o dello spazio, legnetti secchi e pigne da seccare al Sole, qualche castagna selvatica indurita e, con quello che aveva raccolto, fabbricava regali. 

Lui fabbricava regali. Non aveva altro da fare e per sfamarsi non aveva che da scendere a valle, in paese, dove il fornaio gli regalava sempre, senza che lui lo chiedesse, un filone di pane. Al mercato poi c'erano gli scarti della frutta, quella un po' ammaccata ma buona che nessuno comprava. Le erbe del sottobosco erano deliziose, nel pane, appena colte e tagliuzzate. Acqua ne aveva a volontà, fredda e pura, sempre scorrente dalla fontanella appena fuori casa. 

Lui fabbricava regali. Gli piaceva curvare gli stecchi sottili alla fiamma del camino, fare strani pupazzi con per testa una castagna e per occhi due sassolini. Non avevano bocca ma un bel naso sì, fatto con un pezzettino di legno. Faceva anche piccole slitte e carriole con strane ruote piene, ricavate da tondi di legno. 

Era un omino ormai vecchio, con qualche raro pelo sul volto e senza capelli. Qualche dente gli era rimasto, per fortuna, ed il suo sorriso risultava ancora gradevole anche con qualche, inevitabile, vuoto fra un dente e l'altro. 

I regali li sistemava in fila, davanti alla sua reggia ed ormai riempivano tutto lo spiazzo ed anche parte del sentiero che scendeva a valle. Lui aspettava, da sempre, che qualcuno si presentasse e ne chiedesse almeno uno in dono. Non successe mai, durante la sua vita. 

Davanti a casa sua non passava nessuno e lui era troppo timido per portare qualche oggettino in paese e regalarlo. Così attese, attese tanto che morì, nel silenzio della notte, passando dal sonno alla quiete definitiva senza accorgersene. 

Tre giorni dopo il panettiere si preoccupò, non vedendolo, e salì a monte. Lui dormiva per sempre, circondato dai suoi oggettini, offerti da una vita e mai notati. 

Il fornaio si sedette e pianse in silenzio quell'ometto così pieno d'amore sempre offerto e mai donato. Poi si chinò, raccolse una piccola slitta e scese a valle......... 

 

Giba